NORMATIVA

Smart Worker: no al licenziamento per mancato rispetto dell’orario di lavoro se si raggiungono gli obiettivi



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Su questa tematica si è espressa la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 2761 del 30 gennaio 2024, ha affermato alcuni importanti principi sul tema

Pubblicato il 18 mar 2024

Stefano Petri

Avvocato Employment DLA Piper



Smart Worker orario

Sin dalla sua introduzione e, in particolar modo, dalla sua forte implementazione nel corso dell’emergenza COVID-19, il c.d. “lavoro agile” (o Smart Working) ha sempre diviso le opinioni di imprenditori e lavoratori e, per quanto di nostro interesse, ha sollevato numerose questioni di diritto, che sono state dibattute e analizzate dalla giurisprudenza e dagli specialisti del settore.

Occorre, in primo luogo, precisare che lo Smart Working – la cui implementazione nel rapporto di lavoro è frutto di un accordo tra datore di lavoro e lavoratore – è stato normato solamente nel 2017 e si caratterizza, quantomeno in astratto, per una forte elasticità nello svolgimento della prestazione lavorativa, che potenzialmente consente di trascendere elementi tipici e fissi del rapporto come, ad esempio, orari prestabiliti e luogo di lavoro.

Smart Worker e orario di lavoro

Strettamente connesso al lavoro agile è dunque il tema dell’orario di lavoro degli Smart Worker e in particolare il rapporto che intercorre tra una prestazione lavorativa che, ai sensi della Legge n. 81 del 2017, viene svolta senza una postazione fissa ed entro i soli limiti dell’orario lavorativo giornaliero e settimanale, e un orario di lavoro giornaliero determinato con precisione in entrata e in uscita.

Segnatamente, questa tematica assume particolare rilevanza in tutte quelle ipotesi in cui il dipendente risulta inquadrato all’interno di mansioni che – effettivamente – possono essere svolte indipendentemente da una presenza fisica costante in ufficio e indipendentemente dal rigoroso rispetto dei relativi orari stabiliti dal datore di lavoro.

Si pone, più nello specifico, una questione importante: la possibilità di sottoporre a sanzione disciplinare – e, da ultimo, al licenziamento – il dipendente che, in Smart Working, non segua pedissequamente l’orario d’ufficio ma comunque riesca a portare a termine gli incarichi affidati e gli obiettivi assegnati dal suo datore di lavoro o manager.

Fatte queste premesse, su questa tematica si è espressa recentemente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2761 del 30 gennaio 2024, che ha affermato alcuni importanti principi sul tema.

La Sentenza

Nel caso in esame, la dipendente di una società cooperativa, che svolgeva mansioni di supervisione e controllo dei cantieri, veniva licenziata per aver violato le disposizioni aziendali in ordine all’orario di lavoro.

La dipendente, tuttavia, svolgeva la propria prestazione lavorativa per la maggior parte del tempo da remoto e, con queste condizioni, era perfettamente in grado di tenere i necessari contatti e di svolgere i relativi compiti assegnati per tutte quelle ore in cui non si trovava in ufficio. Per questo motivo, i giudici di primo e secondo grado ritenevano che non si potesse contestare nulla alla lavoratrice da un punto di vista disciplinare.

La società, tuttavia, presentava ricorso in Cassazione facendo valere il principio del “mancato svolgimento della prestazione” e sostenendo che la dipendente, tramite lo Smart Working, lavorava in modo incompleto e discontinuo, senza rispettare l’orario stabilito dal contratto di lavoro, approfittando così del fatto che non vi fosse un sistema di rilevazione automatica delle presenze.

I giudici della Suprema Corte, però, hanno confermato l’illegittimità del licenziamento, ritenendo che il ruolo di supervisore svolto dalla dipendente fosse svincolato da un preciso orario di lavoro, ben potendo la dipendente lavorare da remoto e raggiungere gli obiettivi aziendali. Punto focale della pronuncia della Cassazione è il fatto che, secondo l’istruttoria, lo svolgimento delle mansioni di supervisore prescinde dalla presenza fisica in ufficio e ciò è sufficiente per i giudici ad affermare che non si può escludere che nei giorni o nelle ore che la società indica come assenza dal servizio la dipendente abbia invece compiuto le attività tipiche del suo ruolo.

Sulla base di queste motivazioni la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, diventando così definitiva la decisione che dichiara illegittimo il licenziamento adottato nei confronti della dipendente in questione.

Secondo la Corte di Cassazione, infatti, vista l’assenza di un vincolo di orario lavorativo in capo alla coordinatrice e visto che alcuni dei compiti assegnati alla stessa ben potevano essere svolti anche in autonomia da remoto: “l’addebito – del datore di lavoro – sarebbe stato fondato solamente laddove la dipendente avesse fatto mancare il proprio apporto di risultato ovvero laddove fosse stato possibile dimostrare che il suo tempo fosse stato dedicato ad altre attività, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria”.

Le possibili conseguenze

Il fatto che la Corte di Cassazione si sia pronunciata su questo tema apre una riflessione importante pro futuro, fornendo così un precedente giudiziale in cui è stato affermato chiaramente che lo svolgimento della prestazione da remoto non comporta il rigoroso rispetto dell’orario di lavoro dello Smart Worker (a patto che le attività assegnate vengano portate a termine).

Lo Smart Working, pertanto, si arricchisce di un’importante pronuncia che porta ulteriore elasticità a tale istituto e proietta nel futuro tutte quelle performance che prescindono dalla necessità di stare in ufficio.

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