Nel dibattito sul futuro del lavoro, la settimana corta si è affermata come uno dei temi più discussi e più sperimentati, ma anche tra i più complessi da gestire. Durante la sessione dedicata agli effetti dello Smart Working della 14ª edizione dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, la ricerca 2025 ha offerto uno sguardo concreto su come il tempo di lavoro stia cambiando dentro le organizzazioni italiane.
I dati, accompagnati dagli interventi di aziende che hanno introdotto modelli flessibili, mostrano come la riduzione delle giornate lavorative non sia soltanto una misura di welfare, ma un esperimento di equilibrio tra produttività e benessere.
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Il quadro emerso dalla ricerca: sperimentazioni in crescita ma non diffuse
Secondo i risultati presentati da Rita Zampieri, ricercatrice senior dell’Osservatorio, la settimana corta è oggi sperimentata dal 10% delle grandi imprese italiane. È una quota ancora limitata, ma in progressivo aumento rispetto al 2023.
«Parliamo di iniziative ancora in fase pilota», ha precisato Zampieri, «ma che rappresentano una frontiera culturale del lavoro agile. Le aziende che le adottano non cercano solo efficienza, ma un nuovo equilibrio tra tempo, motivazione e qualità della vita».
Il modello prevalente non è quello rigido delle “quattro giornate da otto ore”, bensì versioni flessibili che riducono la presenza in sede o concentrano le ore in periodi specifici dell’anno. È una sperimentazione che nasce da esigenze diverse: sostenere la conciliazione vita-lavoro, ridurre i livelli di stress e rafforzare il senso di appartenenza.
La ricerca evidenzia che oltre il 60% delle aziende che hanno testato la settimana corta ha riscontrato un miglioramento del clima interno, con un aumento del benessere percepito del 18%. Tuttavia, le stesse organizzazioni segnalano un effetto neutro o moderato sulla produttività complessiva, segno che la trasformazione richiede una revisione dei processi più che una semplice riduzione oraria.
L’esperienza di Andriani: flessibilità come leva di sostenibilità
Tra i casi aziendali citati durante la tavola rotonda dedicata agli effetti dello Smart Working, Mariangela Candido, Human Resources & Organization Director di Andriani, ha spiegato come l’azienda abbia integrato la settimana corta in un approccio più ampio alla sostenibilità del lavoro.
«La riduzione dell’orario non è un obiettivo in sé», ha affermato. «È parte di un percorso di evoluzione culturale che mette al centro il benessere e la responsabilità. Abbiamo lavorato sulla fiducia reciproca e sulla misurazione per obiettivi, prima ancora che sulla quantità di ore».
Andriani ha introdotto la formula sperimentale “4+1”: quattro giornate standard e una di lavoro libero dedicata ad attività di formazione, innovazione o volontariato aziendale. Il modello, ha spiegato Candido, «ha contribuito a migliorare la motivazione e a ridurre il turnover, ma soprattutto ha rafforzato il senso di identità condivisa».
L’esperienza conferma che la settimana corta funziona solo se integrata in un quadro di Smart Working maturo, in cui flessibilità, obiettivi chiari e cultura della fiducia si alimentano a vicenda.
Il tempo come risorsa strategica
Il tema del tempo lavorativo è emerso con forza anche negli interventi di Massimiliano Liberale, People Experience and Development Officer di ActionAid Italia, che ha raccontato come l’organizzazione stia sperimentando forme di riduzione modulare del tempo di lavoro.
«Per noi il tempo non è solo una variabile economica», ha spiegato. «È una risorsa umana e sociale. Abbiamo scelto di ridurre l’orario su base volontaria, accompagnando il cambiamento con percorsi di ascolto e co-design. Non si tratta di lavorare meno, ma di lavorare in modo diverso, con maggiore intensità e consapevolezza».
ActionAid ha introdotto un modello basato su cicli trimestrali di sperimentazione, con l’obiettivo di comprendere l’impatto reale sul benessere e sulla produttività. Secondo Liberale, «la sfida è culturale: significa passare da una logica di tempo misurato a una logica di tempo significativo».
La produttività nella settimana ridotta: oltre i numeri
Durante la stessa sessione, Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio, ha sottolineato che le iniziative di riduzione del tempo di lavoro richiedono un cambio di paradigma manageriale. «Non basta ridurre le giornate, bisogna ridefinire i processi e la distribuzione dei carichi», ha osservato.
Le evidenze raccolte mostrano che la produttività individuale non cala con la settimana corta, ma la tenuta organizzativa dipende dalla capacità di gestire la collaborazione. Le aziende che hanno introdotto orari ridotti con successo sono quelle che hanno investito in strumenti digitali di coordinamento e in leadership diffusa.
In questo senso, la settimana corta è una palestra di autonomia, che obbliga le organizzazioni a ragionare per risultati e non per ore. È un laboratorio dove il tempo diventa un indicatore di qualità organizzativa, più che di presenza.
Verso modelli di flessibilità sostenibile
La settimana corta, pur restando una pratica minoritaria, è l’espressione più visibile di un percorso che unisce produttività, fiducia e benessere.
Come ha sintetizzato Zampieri nel suo intervento conclusivo, «il tempo non è una variabile neutra: è un fattore strategico di sostenibilità. Le organizzazioni che lo comprendono stanno già costruendo il lavoro del futuro».
Gli esperimenti oggi attivi in Italia mostrano che la flessibilità oraria, se progettata con metodo e accompagnata da leadership consapevole, può diventare un vantaggio competitivo. Non per lavorare meno, ma per lavorare meglio — in un work-life balance ridefinito tra efficienza e umanità.




