Il tema del godimento dell’indennità di ferie e permessi non goduti è un argomento che è stato parecchio dibattuto e analizzato sia in giurisprudenza sia in dottrina. Numerosi, infatti, sono gli interventi al riguardo che hanno dato risposta ai diversi quesiti posti e affrontati.
Occorre innanzitutto precisare che le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale e irrinunciabile del lavoratore e, conseguentemente, la concessione di periodi di riposo retribuito in favore del dipendente rappresentano un vero e proprio obbligo in capo al datore di lavoro.
Le ferie, infatti, secondo l’articolo 36, della Costituzione, possono rientrare nel concetto di tutela della salute e sicurezza del lavoratore, essendo il fine ultimo di tale diritto quello di consentire al lavoratore il recupero delle energie psichiche e fisiche e di assicurargli il giusto riposo.
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La monetizzazione delle ferie non godute
Strettamente connesso a tale diritto è dunque il tema della “monetizzazione” delle ferie maturate durante il rapporto lavorativo ma non godute: una volta cessato il contratto di lavoro, il dipendente ha il pieno diritto di ricevere il “controvalore” monetario delle ferie che ha accantonato ma non è stato in grado di usufruire.
La stessa disciplina comunitaria (Direttiva n. 88 del 2003, che ha modificato la Direttiva n. 104 del 1993), coerentemente ai principi richiamati sopra e alla normativa italiana, ha disposto che il periodo minimo di quattro settimane di ferie (o, meglio, riposo), non può nemmeno essere rimpiazzato dalla relativa indennità sostitutiva, fatto salvo il caso cessazione del rapporto di lavoro.
La sentenza dell’indennità ferie non godute n. 17643 del 20 giugno 2023
Effettuato questo breve inquadramento generale, passiamo ad esaminare la recente sentenza della Corte di Cassazione (ovvero, la n. 17643 del 20 giugno 2023), a mezzo della quale sono stati ribaditi degli importanti principi in tema di pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Nel caso in esame, la dipendente di un’amministrazione pubblica aveva richiesto il pagamento di circa 250 giorni di indennità sostitutiva delle ferie non godute, maturate durante il suo lungo rapporto di lavoro. La datrice di lavoro respingeva la richiesta della lavoratrice; quest’ultima adiva così i giudici di primo grado, che accoglievano per gran parte le pretese della dipendente. La decisione del Tribunale è confermata dalla Corte d’Appello.
Ricorreva così in Cassazione l’amministrazione, sostenendo che (gran parte) dell’indennità sostitutiva delle ferie non fosse dovuta poiché il diritto era ormai quasi interamente prescritto, essendo la relativa prescrizione decorsa in corso di rapporto, con la conseguenza che la lavoratrice, al massimo, avrebbe potuto richiedere solo gli ultimi 5 anni di ferie “arretrate”.
La pronuncia fa propri alcuni orientamenti della Corte di Giustizia europea, in taluni casi richiamandoli espressamente, e sottolinea come sia necessario garantire al lavoratore, da sempre parte debole del rapporto di lavoro, una tutela maggiore e aggiuntiva, in questo caso identificata nella corresponsione di un’indennità economica per le ferie annuali retribuite non godute dallo stesso e alle quali aveva diritto prima della cessazione del rapporto di lavoro. Infatti, l’estinzione di tale diritto in caso di cessazione del rapporto di lavoro arrecherebbe un pregiudizio all’esistenza del diritto stesso, con la conseguenza che – quest’ultimo – non è soggetto a prescrizione durante il corso del rapporto.
Secondo la Corte di Cassazione, infatti: “La prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”.
Ciò, poiché (anche tenuto conto della giurisprudenza comunitaria): “Il lavoratore deve essere considerato la parte debole nel rapporto di lavoro, sicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti. Tenuto conto di tale situazione di debolezza, un simile lavoratore può essere dissuaso dal fare valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di lavoro, dal momento, in particolare, che la loro rivendicazione potrebbe esporlo a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro in danno di detto lavoratore”.
Le responsabilità del datore di lavoro
Va da sé, dunque, che se al momento della cessazione del rapporto di lavoro il lavoratore non abbia beneficiato dei giorni di riposo che effettivamente gli spettavano, il datore di lavoro è obbligato, secondo disciplina nazionale e comunitaria, a corrispondere un’indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Sarà pertanto onere del datore di lavoro eccepire tutte le circostanze idonee a “paralizzare” la richiesta del lavoratore. L’imprenditore è infatti tenuto a dimostrare di aver agito con la massima diligenza in modo tale da consentire al lavoratore di godere delle ferie maturate.
Tuttavia, nel caso di specie la Corte ha rilevato che ciò non fosse avvenuto.