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Promuovere il benessere psicologico in azienda: strategie e benefici



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Un approfondimento sulle misure da adottare per migliorare la salute mentale dei dipendenti, con l’obiettivo di creare un ambiente di lavoro più sano e produttivo. L’intervista a Silvia Brusatin, Board Member & Sales Director di Mindwork

Pubblicato il 26 lug 2023



Benessere psicologico

Una persona su due in Italia ha sperimentato condizioni di stress elevato sul lavoro e il 90% vorrebbe che la sua organizzazione si occupasse di benessere psicologico.

Lo afferma l’ultimo studio condotto da Mindwork con BVA Doxa, su un campione rappresentativo dei lavoratori italiani di aziende con almeno 10 dipendenti, che rimarca quanto la cura della salute mentale in azienda oggi sia un aspetto su cui lavorare.

Abbiamo intervistato Silvia Brusatin, Board Member & Sales Director della realtà che affianca le aziende per potenziare la consapevolezza su questi aspetti, per capire come muoversi in tal senso.

Who's Who

Silvia Brusatin

Board Member & Sales Director di Mindwork

Silvia Brusatin

Quando si pensa al contesto lavorativo come si declina il concetto di benessere psicologico?

In generale, il benessere psicologico è il requisito fondamentale affinché una persona possa “funzionare bene”. E questo chiaramente vale anche nel contesto aziendale. Se si sta bene e ci si trova nelle migliori condizioni, è più facile avere una buona performance e raggiungere gli obiettivi.

È a questo livello che si innesta un circolo virtuoso: è infatti interesse dell’azienda preservare il benessere psicologico delle sue persone, non solo per l’impatto e lo scopo etico più alto, ma anche per un tema di produttività e di efficienza.

Su cosa bisogna concentrare l’attenzione quindi?

Come riporta il The Workforce Institute nel 69% dei casi il capo ha un impatto sulla salute psicologica tanto quanto il partner e più del terapista. Si tratta di una relazione che nel bene e nel male ha delle ricadute importanti. Ecco perché oggi è fondamentale avere una leadership a misura di benessere psicologico. Non a caso abbiamo costruito un modello di psico-educazione pensato per i capi, per aiutarli ad assumere l’atteggiamento giusto nella gestione delle persone dal punto di vista del benessere psicologico, con l’obiettivo di ridurre le cause di malessere.

Un malessere che oggi è in molti casi generale e diffuso. Viviamo in un momento di “policrisi”: la pandemia ha avuto degli importanti risvolti su come si percepiscono le cose, c’è una guerra che impensierisce, c’è l’inflazione che avanza, c’è preoccupazione per il climate change. E questi sono solo alcuni degli aspetti. Non si può, infatti, trascurare, lo stato di totale incertezza in cui vive la generazione dei Millennials e dei GenZ.

Ecco perché le organizzazioni devono lavorare per normalizzare il benessere psicologico e la buona notizia è che gli under 34 sono molto propensi a seguire programmi in tal senso: il tasso di utilizzo dei nostri servizi, ad esempio, raggiunge per questa categoria di lavoratori il 30%, quando la media di utilizzo del nostro servizio è dell’8%, in ogni caso fino a 6 volte maggiore di quella dei principali competitor sul mercato.

C’è differenza tra le PMI e le grandi aziende quando si parla di benessere psicologico?

Il modo in cui i progetti sono portati avanti è analogo, a cambiare è l’obiettivo.

Le PMI hanno bisogno oggi di leve per trattenere le persone in azienda e tenerle ingaggiate, da una parte, e per attrarre i talenti, dall’altra. Quando non si ha un brand forte e si è in una nicchia, fornire un supporto psicologico soprattutto alla Generazione Z è una leva con un forte impatto sia internamente, sia quando si lavora sulla comunicazione esterna.

Tutto questo è in parte valido anche per le aziende più grandi, perché ormai non basta il brand per attrarre le persone. In questo caso, infatti, il peso principale delle iniziative ricade sull’employer branding: creare un posto in cui lavorare che sia a misura di benessere psicologico fa sì che i talenti che ci sono restino e crescano in azienda.

E poi c’è anche un tema di emulazione positiva: quando un’azienda leader in un settore intraprende dei percorsi sul benessere anche le altre tendono ad adeguarsi, perché il rischio è che quel tipo di servizio possa diventare il differenziante nella proposta che si fa ai neoassunti che porta ad accettare o meno a lavorare in una realtà. Tanto più che si tratta di un aspetto ormai centrale: secondo lo studio che abbiamo condotto con Doxa, tre persone su cinque hanno lasciato il posto di lavoro per motivi di malessere psicologico anche se non avevano altre opportunità.

Che tipo di iniziative possono adottare oggi le aziende?

Noi lavoriamo con le organizzazioni lungo tre dimensioni, che si possono adottare simultaneamente o separatamente.

Si può, ad esempio, introdurre un servizio di supporto psicologico one-to-one che viene erogato tramite piattaforma digitale proprietaria. I dipendenti possono accedere e scegliere tra circa cento psicologi e psicoterapeuti, tutti iscritti all’albo e con almeno 5 anni di esperienza, e incominciare il percorso, ovviamente sempre con lo stesso professionista. Il servizio è disponibile 7 giorni su 7 ed è multilingue, permettendo così alle aziende che lavorano a livello globale di offrire il medesimo tipo di supporto a tutte le persone in giro per il mondo.

Come anticipato, si può poi lavorare sulla psico-educazione, con l’obiettivo di spingere sulla dimensione della cultura aziendale e di fare divulgazione.

Infine, c’è la comunicazione. Un esempio interessante è quello di Mondelēz per la quale abbiamo organizzato un evento sul benessere psicologico rivolto alle persone dell’azienda, coinvolgendo degli esperti e dei testimonial, come il cantante Michele Bravi. Questa è una modalità innovativa di fare engagement.

Poi, quando si parla di comunicazione, non si può non far riferimento a quella interna e all’insieme di newsletter, podcast e contenuti che sensibilizzano le persone sui temi legati al benessere. Anche in questo caso a beneficiarne è in generale da un lato la cultura e dall’altro l’accessibilità dei contenuti che vengono messi facilmente a disposizione dei dipendenti, senza essere necessariamente costretti a fissare degli incontri con gli specialisti.

Quali sono i capisaldi di una Mental Health Strategy e quali ricadute ha sull’organizzazione?

La prima cosa su cui lavorare è la costruzione di un ambiente di lavoro che sia a misura di benessere psicologico, anche dal punto di vista della sicurezza percepita dalle persone. E lo si deve fare disegnando dei percorsi ad hoc che tengano anche in considerazione che le necessità di un blue collar sono diverse da quelle di un white collar, ad esempio.

L’obiettivo ultimo è normalizzare e creare consapevolezza. Sono questi i punti fermi da cui poi si costruiscono i contenuti, come quelli sulla genitorialità, sulla gestione dell’ansia e del bilanciamento casa-lavoro con lo Smart Working.

Guardando poi alle ricadute derivanti dall’adottare una Mental Health Strategy, quando un’azienda si occupa di benessere psicologico e propone dei servizi dimostra che si sta prendendo cura di una parte della vita delle persone, che a loro volta si sentono più accolte. Viceversa, non adottare una strategia in tal senso rischia di portare all’uscita delle persone.

Esistono ancora remore e preconcetti a parlare di benessere psicologico in azienda?

La pandemia ha rimosso uno strato di stigma rispetto al benessere psicologico, c’è stato un momento di malessere diffuso e questo ha fatto sì che se ne sia parlato con più libertà. Molti passi avanti sono stati fatti, complici anche le politiche ESG che stanno sempre più prendendo piede nelle nostre aziende.

Questo perché la S di sostenibilità sociale ha oggi un peso, non è un caso che in alcune aziende sia stata introdotta la figura del wellbeing manager, che si occupa di migliorare il benessere fisico e psicologico dei dipendenti all’interno di un’organizzazione, promuovendo stili di vita salutari e definendo dei percorsi e dei comportamenti per gestire lo stress sul posto di lavoro e favorire un miglioramento dell’equilibrio tra vita lavorativa e vita privata.

Tuttavia, non si può negare che ci siano ancora delle reticenze, causate da tabù e bias culturali molto radicati e nelle realtà del nostro Paese. In questi casi il cambiamento richiede tempi lunghi. Noi ci impegniamo a divulgare, a fare comunicazione, a fare cultura, ad aiutare a comprendere che si può e si deve parlare di questi temi.

Quello che colpisce è che per i più giovani, per la Gen Z, è normale parlare di benessere e questo ci fa ben sperare che in un domani, non troppo lontano questo aspetto farà definitivamente della strategia delle aziende e che sarà normale per i dipartimenti HR lavorare con realtà come la nostra per creare un ambiente di lavoro accogliente e che si prende realmente cura delle persone a 360 gradi.


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