Normativa

Parità Salariale in Italia: opportunità e limiti della Direttiva Europea 2023/970



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L’obbligo per le imprese di rendere disponibili i dati in forma disaggregata può dare concretezza al gender pay gap. Nel caso di discriminazione retributiva adesso è previsto un risarcimento o la piena riparazione del danno. Ma la norma si applica solo alle realtà più grandi. Il punto di Lucia Valente, Professoressa dell’Università Sapienza di Roma

Pubblicato il 14 feb 2024

Federica Meta

Giornalista professionista



Parita-salariale

La parità salariale è ancora una chimera in Italia. I dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps registrano un gender pay gap di 7.922 euro. La retribuzione media annua complessiva di chi lavora in Italia è di 22.839 euro; per il genere maschile è di 26.227 euro contro i 18.305 euro del genere femminile.

E non va meglio in Europa dove – sono i dati della Commissione europea – in media le donne guadagnano il 13% in meno rispetto agli uomini: per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna avrà solo 0,87 centesimi.

Per contribuire a colmare questo gap, il 10 maggio 2023, è stata pubblicata la direttiva Ue 2023/970 sulla parità retributiva che imporrà alle imprese europee di divulgare informazioni che agevolino il confronto degli stipendi dei dipendenti e la denuncia delle differenze esistenti. Le norme sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue lo scorso maggio e gli Stati membri avranno tempo fino al 7 giugno 2026 per adeguarsi.

Ma la direttiva può essere davvero uno strumento utile a raggiungere l’obiettivo della parità salariale? Ne parliamo con Lucia Valente, Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell’Università Sapienza di Roma.

Who's Who

Lucia Valente

Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell'Università Sapienza di Roma

Lucia Valente

Valente, come giudica la direttiva europea? Può essere uno strumento utile a raggiungere, o comunque contribuire a raggiungere, l’obiettivo parità salariale?

La risposta è complessa. Certamente la direttiva, obbligando le imprese a rendere disponibili i dati in forma disaggregata – quelli che abbiamo attualmente a disposizione sono invece aggregati – può offrire un panorama più chiaro della parità salariale, e quali sono le realtà più attente a questi temi. Le aziende di grandi dimensioni, dovranno rendere disponibili i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore e anche i criteri utilizzati per determinare la progressione retributiva e di carriera, che devono essere oggettivi e neutri sotto il profilo del genere. L’altro aspetto positivo inerisce alla definizione stessa di retribuzione, che oltre allo stipendio normale o minimo riguarda anche tutti gli altri vantaggi come i superminimi o i benefit. Anche queste sono informazioni preziose per analizzare il divario salariale.

Una novità riguarda anche l’accesso alla giustizia…

Esatto. Qualsiasi lavoratore o lavoratrice che sia vittima di discriminazione retributiva basata sul genere può ottenere un risarcimento o la piena riparazione del danno. Da segnalare anche l’inversione dell’onere della prova per cui spetterà al datore di lavoro dimostrare di non aver violato le norme europee in materia di parità di retribuzione e trasparenza retributiva. Agli Stati membri è demandato il compito di stabilire sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive e agevolare le procedure a sostegno dei lavoratori presunte vittime di una disparità. Ma il nuovo pacchetto di regole presenta anche molti limiti.

Quali sono?

Prima di tutto il fatto che l’obbligo riguarda, per ora, solo le aziende dai 250 dipendenti in su e solo dal 2031 quelle con più di 100 dipendenti. Il tessuto produttivo italiano si caratterizza per una massiccia presenza di medie e piccole imprese che non saranno impattate dalla normativa e questo ne limiterà l’efficacia. Poi c’è un tema più di contesto che limita l’accesso al lavoro delle donne

In che senso?

Il diritto del lavoro rischia di non bastare a controbilanciare gli squilibri di genere legati a fattori sociali. Le donne, spesso, scelgono di non fare carriera o di non ricoprire posizioni apicali, oppure chiedono il part time, non fanno straordinario o non lavorano nei giorni festivi per far fronte alle esigenze di cura. In Italia la contrattazione collettiva garantisce la stessa paga oraria per uomini e donne: se quest’ultime guadagno meno, è perché lavorano meno per far fronte alle esigenze di cura che è ancora compito prevalentemente femminile.

E allora cosa si può fare concretamente per arrivare alla parità salariale?

Il diritto del lavoro funziona, in questo caso, se accompagnato da una serie di azioni e di politiche che supportino le donne, che le sgravino dalla responsabilità totale dei lavori di cura e assistenza. Alla parità formale si deve associare una parità sostanziale. E questo vuol dire fare investimenti nelle infrastrutture sociali, a cominciare dai nidi e dai servizi di sostegno alle persone anziane. Il miglioramento delle condizioni sociali delle donne dovrebbe essere il primo obiettivo del Paese. Considerando che, oggi, ci sarebbero anche le risorse per farlo: il Pnrr mette a disposizione oltre 19 miliardi per il potenziamento dei servizi di inclusione e coesione, asili nido compresi. Ma bisogna volerlo fare.

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