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Dall’engagement al benessere, passando per le competenze e la diffusione dell’AI: i numeri dell’Osservatorio HR del PoliMi



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Solo il 10% delle persone sta bene nel contesto organizzativo e aumentano i quiet quitter. Nelle organizzazioni skill-based i lavoratori coinvolti e motivati salgono dal 17% al 42%. «La sfida principale per le Direzioni HR è lavorare sul senso e il significato del lavoro, costruendo una rotta condivisa e sostenibile», sottolinea Mariano Corso, Direttore Scientifico

Pubblicato il 19 mag 2025



Osservatorio HR 2025

Un’economia incerta, un mercato del lavoro sotto pressione e un senso crescente di disconnessione emotiva da parte dei lavoratori: è questo il quadro che emerge con forza dall’edizione 2025 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, presentato nel corso del convegno “Tracciare la rotta del cambiamento”.

«Abbiamo scelto la metafora della navigazione perché racconta bene la complessità di questo momento storico» ha esordito Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio. «Il mercato del lavoro, e la società in generale, stanno attraversando acque turbolente: alle grandi transizioni – digitale, ambientale, demografica – si sommano crisi sovrapposte che generano incertezza e ansia. Le persone si sentono sfiduciate, bloccate, presenti sul posto di lavoro, ma mentalmente disconnesse. Non è un caso che il nuovo Papa Leone XIV, fin dalla scelta del nome, abbia voluto mettere il tema sociale e la grande sfida del lavoro al centro del programma del suo pontificato. A chi si occupa di risorse umane spetta la responsabilità di costruire una rotta condivisa e sostenibile. Consapevoli del fatto che questo è un momento epocale. Dobbiamo fermarci a riflettere: dove siamo, come stanno le nostre persone, e dove vogliamo andare. Dobbiamo recuperare l’entusiasmo, il senso, la voglia di costruire. Il lavoro non può essere solo un dovere: deve tornare a essere una promessa».

Il grande distacco: benessere e engagement ai minimi storici secondo i dati dell’Osservatorio HR 2025

La fotografia del 2025 conferma la criticità dello scenario. Solo il 10% dei lavoratori italiani dichiara di stare bene nelle tre dimensioni chiave – fisica, psicologica e relazionale – mentre il 17% si sente pienamente ingaggiato.

Il fenomeno più rilevante è quello del Great Detachment, il grande distacco, una nuova forma di disillusione: «Dalla rabbia e dalla voglia di cambiare, molti stanno scivolando verso una rinuncia emotiva. Preferiscono proteggersi piuttosto che sfidarsi, in un clima di generale sfiducia» ha osservato Corso.

Le dimissioni volontarie restano su livelli elevati, ma diminuisce la propensione a fare colloqui, ed cresce anche il numero dei quiet quitter (14% dei lavoratori): «Non si tratta più di una reazione post-pandemica, ma di un malessere strutturale. Il lavoro non entusiasma più, non dà più fiducia».

E, in questo quadro, il benessere resta il driver principale nella scelta di un nuovo lavoro, seguito da retribuzione, benefit e stabilità contrattuale. «È paradossale: nel momento in cui più avremmo bisogno di un equipaggio reattivo, le persone scelgono di ritirarsi», ha affermato Corso. «Il desiderio è quello di un ambiente sano, inclusivo, che tuteli ma anche che dia senso al lavoro».

GenZ: equilibrio, purpose e formazione

E il grande nodo da risolvere per le organizzazioni è quello della Gen Z: attrarre e trattenere i giovani è infatti prioritario per l’82% delle aziende. E farlo richiede comprendere il valore che danno all’equilibrio vita-lavoro, agli ambienti rispettosi e alla possibilità di crescere professionalmente. «Non cercano un posto, ma un significato. E ci sfidano a rispondere alla domanda: perché lavoriamo?» ha spiegato Corso. Il lavoro è solo una parte della vita, non la sua totalità.

Le competenze come rotta strategica: è tempo di puntare sul modello skill-based

In generale il talent shortage preoccupa molto le aziende. Per il 2025 la metà delle imprese italiane avrebbe previsto una crescita, ma circa 8 su 10 riscontra difficoltà ad assumere. Tra le cause c’è lo skill mismatch, ovvero la difficoltà a trovare persone con le competenze tecniche giuste, segnalato dal 57% delle aziende del campione. E poi c’è l’aumento dei rifiuti delle offerte di lavoro.

Chiara Tamma, Ricercatrice dell’Osservatorio, ha sottolineato come la valorizzazione delle competenze sia diventata oggi un elemento critico per il successo organizzativo: «In un mercato del lavoro in continua trasformazione, le competenze rappresentano la vera leva di adattamento e competitività. È sempre più difficile trovare sul mercato esterno profili con le skill necessarie, in particolare su Intelligenza Artificiale, Big Data e Cybersecurity. Per questo molte aziende stanno investendo nello sviluppo interno».

In linea con la metafora attorno a cui ruota il messaggio del convegno si può quindi affermare che l’assessment delle competenze è lo strumento che indica dove ci si trova – è il sestante della navigazione – e l’analisi delle competenze delle futuro permette di comprendere la direzione verso cui tendere: è quindi la bussola della navigazione.

Da qui il modello skill-based proposto dall’Osservatorio HR 2025, che rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma nella gestione delle persone. Nello specifico prevede l’adozione di cinque step evolutivi che riguardano altrettanti processi HR: dalla progettazione organizzativa al recruiting, dalla formazione alla gestione delle carriere, fino alla valutazione delle performance. Il punto di partenza è il superamento del concetto di ruolo fisso in favore di una struttura flessibile, basata sulle competenze effettive delle persone e sul loro potenziale.

Nel recruiting, questo significa cercare talenti non solo per coprire un’esigenza immediata, ma per rispondere ai fabbisogni futuri. In ambito formazione, le persone vengono incoraggiate a muoversi verso skill affini alle proprie, mentre l’organizzazione ha il compito di guidarle verso quelle competenze strategiche per il futuro. Nella gestione delle carriere si valorizza la mobilità interna e si promuovono esperienze di crescita anche all’esterno dell’organizzazione. Infine, nel performance management, lo sviluppo delle competenze entra nella valutazione e può incidere sulla retribuzione.

Questo approccio risponde anche a un’esigenza urgente: oltre il 50% dei lavoratori afferma di avere competenze che non vengono utilizzate, mentre il 32% teme che le proprie skill diventino obsolete in pochi anni. Eppure, solo una minoranza delle aziende effettua un’analisi sistematica delle competenze presenti e di quelle necessarie in futuro.

«Il modello skill-based non è una moda, ma una necessità per affrontare la velocità con cui mutano le competenze richieste», ha affermato Tamma. «Significa passare da una logica di ruolo a una logica di valore, dove ogni persona viene riconosciuta per ciò che sa fare e per ciò che può diventare. Le competenze diventano moneta: vengono misurate, valorizzate, e persino retribuite». E ha aggiunto: «Perché una persona si senta davvero coinvolta, deve vedere un percorso davanti a sé. La trasparenza delle opportunità e la possibilità di evolvere sono oggi più importanti del titolo o dell’anzianità».

I benefici sono chiari: nelle organizzazioni che adottano un approccio skill-based, il benessere percepito sale dal 10% al 18%, la motivazione e l’engagement dal 17% al 42%. «È una leva concreta per migliorare motivazione, crescita e coinvolgimento. Le persone devono sapere cosa sanno fare, cosa potrebbero fare e dove possono andare» ha concluso Tamma.

L’AI timone da governare per cavalcare i trend HR. L’Osservatorio HR 2025 fa il punto

Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio, ha offerto una panoramica chiara sullo stato di adozione dell’Intelligenza Artificiale nelle direzioni HR: «Il 45% delle aziende ha già investito in soluzioni di AI a supporto dei processi HR, in particolare nella talent attraction. Parliamo di strumenti per generare job description e automatizzare lo screening dei curricula. Ma c’è un dato su cui riflettere: il 21% delle imprese non sa nemmeno se gli strumenti che utilizza siano abilitati da AI. Questo ci dice che manca consapevolezza, e senza consapevolezza è difficile sviluppare una vera strategia».

Il 69% delle direzioni HR prevede di aumentare gli investimenti in AI nel 2025, ma le motivazioni restano prevalentemente tattiche: riduzione dei costi, aumento dell’efficienza. «Poche aziende vedono l’AI come leva per un cambiamento strategico, per assumere un ruolo più rilevante nei confronti del top management» ha aggiunto Mauri.

L’intelligenza Artificiale è già presente nella quotidianità dei lavoratori: il 32% l’ha utilizzata almeno una volta, con picchi del 54% tra la GenZ e del 43% tra i white collar. Tuttavia, molti la usano come un semplice motore di ricerca. «L’AI generativa non è una barra di Google: serve educazione e formazione per comprenderne i veri usi e benefici».

Il 73% degli utenti ha accesso a strumenti aziendali, ma più della metà li integra con soluzioni personali non controllate. «Questo espone le aziende a rischi legali, etici e di sicurezza. Serve una governance chiara: non basta fornire strumenti, bisogna gestirli, formarne l’uso, valutarne l’impatto».

L’Osservatorio ha stimato un risparmio medio di tempo del 26% per chi utilizza l’AI, pari a circa 30 minuti al giorno, che diventano 50 per gli “strong adopter”. Ma il valore va oltre la produttività. «Il tempo guadagnato può essere usato per il benessere, per la formazione, per progetti a impatto sociale. L’AI può diventare un abilitatore di senso, non solo di efficienza».

«La tecnologia non può essere solo uno strumento per fare di più con meno. Deve essere integrata in una visione più ampia, che metta al centro la persona» ha concluso Mauri. «Per questo, nel nostro modello metaforico di bordo, l’intelligenza artificiale è il timone: lo strumento che può aiutare a raggiungere nuove rotte di benessere e engagement».

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