Competenze

Strategic Thinking, come diventare un co-generatore di pianificazioni positive

Lo Strategic Thinking rende le persone capaci non solo di intercettare i nuovi trend – economici, politici, socio-culturali, ambientali, tecnologici – ma anche di comprenderne gli impatti su persone e organizzazione e di co-generare pianificazioni positive per la sostenibilità dell’organizzazione. Il primo appuntamento di un viaggio attraverso le 8 macro-competenze del CHO

Pubblicato il 29 Ott 2020

Laura Torretta*

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In uno scenario economico volatile e tra le tante incertezze create dalla pandemia di Covid-19, ora più che mai le organizzazioni possono beneficiare dalla presenza di un Chief Happiness Officer, il top manager che accompagna la crescita positiva di persone e team per la realizzazione del Potenziale e del Ben-Essere. Diverse le competenze chiave che il CHO deve portare nel suo bagaglio. La prima skill irrinunciabile è lo Strategic Thinking, che rende le persone capaci non solo di intercettare i nuovi trend – economici, politici, socio-culturali, ambientali, tecnologici – ma anche di comprenderne gli impatti su persone e organizzazione e di co-generare pianificazioni positive per la sostenibilità dell’organizzazione.

L’azione chiave dello strategic thinking è quella guardare fuori per cogliere quanto succede nell’ambiente esterno e anticipare salendo “sulle spalle dei giganti” le nuove prospettive utili allo sviluppo organizzativo. Con lo strategic thinking, infatti, il CHO impara a raccogliere informazioni in modo sistematico, amplia lo spettro includendo le voci meno ufficiali non dando nulla per scontato, fa uno scanning iniziale e resta in ascolto vigile dei dati emergenti; è aperto senza pre-giudizi ad apprendere nuovi metodi per indagare e anticipare il futuro e i mega-trend. Sa che l’evoluzione del sistema organizzativo e delle persone che lo abitano è fortemente influenzato dall’esterno e sviluppa un processo positivo di collaborazione e contaminazione.   

Su questi aspetti abbiamo sentito Luciano Canova, divulgatore scientifico, esperto di economia comportamentale e scienza della comunicazione, tutti preziosi tasselli per essere uno Strategic Thinker.

È possibile parlare scientificamente di economia della felicità? Come si allena lo Strategic Thinking?

Da decenni, ormai, la ricerca empirica e teorica sulla felicità ha guadagnato notevole autorevolezza in ambito scientifico, come mostrano alcuni premi Nobel (Daniel Kahneman, è bene ricordarlo, è tra i pionieri dello studio scientifico della felicità) e progetti di ricerca rilevanti, quali il World Happiness Report dell’ONU (sin dal 2012). Chi studia economia comportamentale sa che il tema della felicità va trattato con delicatezza ma anche grande rigore: la complessità di un approccio multidimensionale trova negli studi sulla felicità un’ideale rappresentazione. Economia felice per me significa: responsabilità, approccio scientifico, consapevolezza e meaning, per un’interazione uomo – mondo davvero positiva.

Personalmente non so se sono uno Strategic Thinker. A me la divulgazione scientifica serve prima di tutto per dubitare. Questo non significa non prendersi la responsabilità delle proprie competenze, ma comunque avere l’onestà intellettuale del dubbio, dell’incertezza, della complessità. Molto spesso lo strategic viene definito ‘ex post’, quando la strategia si è già compiuta. C’è un bel libro di Taleb, di qualche anno fa, che si intitola “Giocati dal caso“: è un viaggio interessante dentro il mondo della probabilità e degli scenari incerti. In esso si vede come le storie di successo, per alcuni aspetti, sono delle storie di fortuna. Di nuovo, ciò non significa non indicare una strada, ma vuol dire avere fiducia nei propri errori. L’economia comportamentale insegna probabilmente questo: gli errori di valutazione e di giudizio che facciamo sono sistematici e, dunque, in parte prevedibili. Esserne consapevoli ci aiuta nuovamente nella scuola dell’umiltà.

Il ruolo dei confronti sociali, del contesto, degli elementi esogeni e non controllabili è fondamentale per accettare la complessità e l’incertezza come parte intrinseca del nostro quotidiano. La cosa che ho imparato di più negli anni, e mai come in questo delicato periodo, è di non innamorarmi troppo delle mie idee: è il modo migliore per saper accettare quelle degli altri e per guardare ai dati col distacco e l’approccio scientifico che richiedono.

Sei un supporter di Keynes e ci offri una visione rigenerata del suo pensiero nel tuo libro “Quando l’oceano si arrabbia”. Raccontaci come per poter “guardare fuori” nella complessità con lungimiranza.

John Maynard Keynes è per me proprio l’emblema dell’intellettuale responsabile, figura di cui abbiamo un bisogno formidabile. Il suo standing e il suo coraggio sono un buon esempio di cosa significa produrre un impatto con le proprie idee. Keynes rappresenta per me l’elogio della competenza al servizio del bene pubblico. Dirò una cosa forse non comoda: Keynes è elite. È difficile che nei moment bui non si faccia ricorso a chi merita per guidare la nave in mezzo alla tempesta. Il mondo della disintermediazione ha prodotto uno scossone salutare alla torre d’avorio degli esperti, dando a tutti la possibilità di dire la propria. La D di democratizzazione è importantissima ma credo ora sia necessario un filtro.

Non tutti possono parlare di tutto: serve chi ha competenze irreprensibili, e probabilmente specializzate su un ambito, per affrontare le sfide con responsabilità e coraggio. Keynes mise allora le sue competenze al servizio della corona britannica e dei suoi concittadini, vedendo prima di altri i possibili danni del Trattato di Versailles e provando a disegnare dopo la seconda guerra mondiale un ordine globale inclusivo e senza egemonie solitarie. Per guardare lontano con lungimiranza, servono libertà (grande libertà), responsabilità e tanto, tanto lavoro.

Obiettivo di un CHO è sostenere un percorso di trasformazione positiva dell’organizzazione che sposa business con felicità. Come ridisegnare i confini delle leggi economiche per misurare la felicità sociale e organizzativa?

Nel mio libro “Metro della felicità” credo di avere abbozzato una ricognizione puntuale di quello che dicono le scienze sociali a proposito del tema felicità. Credo che un tema chiave oggi sia fare capire quanto l’economia e le scienze sociali si siano occupate e si occupino di felicità da sempre, anche quando parlano di PIL e crescita.

Il mondo corporate, poi, sta uscendo finalmente dalla retorica decisamente aggiornabile delle Risorse Umane per entrare nell’era dello sviluppo della persona: avere a cuore il benessere del lavoratore significa non dover neppure parlare di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro o work-life balance. C’è una life balance, di cui il lavoro è parte integrante perché contribuisce a fare della nostra vita un’esistenza meaningful, piena di significato.

Credo che un buon esempio sia caratterizzato dall’organizzazione all’interno del colosso Netflix: talent density, trasparenza e onestà tra i collaboratori e con i responsabili, fiducia e autonomia. In un contesto simile, quasi non servono policy: via le policy sui giorni di ferie, via le policy sui limiti di rimborso spese e sulle trasferte. Dare fiducia e costruire un ambiente libero: un’azienda felice non si preoccupa tanto delle barriere all’entrata, quanto ad eliminare le barriere in uscita.

Le skill del CHO: il prossimo appuntamento

Il prossimo mese toccherà a Daniela Di Ciaccio e Veruscka Gennari condividere le loro esperienze lungo questo percorso di approfondimento delle competenze del Chief Happiness Officer. Ci focalizzeremo sulla seconda skill essenziale, l’Organization Epigenetics, ovvero l’analisi del DNA dell’organizzazione.

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