La formazione aziendale non è più un supporto accessorio, ma una delle chiavi strategiche per la crescita e la resilienza delle organizzazioni e delle persone.
Nel giro di pochi anni, le imprese dovranno gestire un equilibrio complesso: da un lato, secondo le stime del World Economic Forum quattro competenze su dieci destinate a diventare obsolete entro il 2030, dall’altro, 69 milioni di nuovi posti di lavoro saranno creati dall’intelligenza artificiale entro il 2028, concentrati in ruoli altamente specializzati e tecnologici.
In questo scenario in continua evoluzione, la formazione aziendale si trasforma in un sistema nervoso centrale che collega tecnologia, cultura e capitale umano: non più un momento di apprendimento, ma un processo continuo di adattamento.
È da questa consapevolezza che ha preso forma il panel “Formazione No Stop – Transizione demografica e del lavoro”, ospitato all’interno di Future@Work 2025 di HRC Group.
Sul palco Paola Accornero (Coin), Raffaella Temporiti (Max Mara Fashion Group), Beatrice Sandri (Haleon) e Cristiano Colombari (Mylia), moderati da Marco Gallo, Managing Director HRC Community.


«La formazione è oggi la frontiera più concreta del futuro del lavoro – ha esordito Gallo -. In un contesto dove le competenze diventano rapidamente obsolete e la tecnologia accelera, non possiamo più limitarci a formare: dobbiamo imparare a reinventarci ogni giorno».
Lungo un confronto partecipato, il leitmotiv è stato: non c’è trasformazione possibile senza un’evoluzione della formazione.
Anche perché non dimentichiamoci che sul nostro Paese pesano un tasso di abbandono scolastico e profondi divari digitali che continueranno a intaccare la nostra competitività e il livello di digitalizzazione che sono già bassi rispetto agli altri paesi.
Inoltre, bisogna fare i conti con il fatto che all’orizzonte si profila anche una trasformazione demografica profonda. Nei paesi ricchi, e quindi in Italia, la popolazione in età lavorativa diminuisce: significa meno giovani da inserire e più persone da mantenere al lavoro più a lungo. Questo impone di ripensare la formazione aziendale continua come leva di inclusione e di aggiornamento permanente.
Indice degli argomenti
Il punto di vista del retail: apprendere nel flusso del lavoro
Nel settore retail, la formazione aziendale si misura con la realtà concreta dei negozi, dove oltre il 90% dei collaboratori lavora a contatto con il cliente. «È un settore che vive pienamente la complessità della trasformazione – ha spiegato Paola Accornero, Direttrice Risorse Umane di Coin -. Le competenze evolvono rapidamente e in una direzione che spesso non riusciamo a prevedere con la stessa chiarezza di qualche anno fa. È un mercato estremamente competitivo, dove la velocità di adattamento è diventata un fattore chiave».
Accornero sottolinea che la grande sfida oggi è portare la formazione anche a chi lavora ogni giorno nei punti vendita: «Parliamo di migliaia di collaboratori che non hanno un device aziendale e che tuttavia devono acquisire familiarità con strumenti digitali, app, interfacce e nuovi touch point del cliente. È una sfida di accessibilità e di linguaggio».
Per affrontarla, Coin ha adottato un approccio basato sul microlearning: «Abbiamo sviluppato percorsi brevi, pratici, accessibili da smartphone, che permettono alle persone di apprendere microcompetenze subito applicabili nel lavoro quotidiano. È un modo concreto per integrare la formazione nel flusso operativo, trasformandola in un’esperienza continua e immediatamente utile».
Ma la questione non è solo organizzativa, è anche culturale. «Parliamo di lifelong learning, di un’attitudine che deve riguardare tutti, non solo i manager. Perché la trasformazione, per chi lavora nei negozi, può generare anche insicurezza: il timore che certe attività diventino automatizzate o che le proprie competenze perdano valore è reale. Ecco perché la formazione deve essere un fattore di rassicurazione, di identità, oltre che di crescita professionale».
Accornero invita poi a superare la visione tradizionale del talento come prerogativa di pochi. «Oggi il talento è diffuso, trasversale e senza età. Le aziende devono imparare a riconoscerlo e coltivarlo a ogni livello, anche grazie agli strumenti digitali e all’intelligenza artificiale, che ci aiutano a individuare i gap di competenze e a prevedere dove investire in sviluppo. Il futuro è fatto di persone che imparano continuamente, a prescindere dalla generazione di appartenenza».
Formazione aziendale e customer experience: la GenAI come nuovo artigiano
Nel mondo del lusso, dove la qualità del prodotto è ormai un prerequisito, la vera competizione si gioca sull’esperienza del cliente.
«La customer experience è diventata il vero fattore competitivo per l’intera industria, e nel lusso in particolare – ha spiegato Raffaella Temporiti, Chief People Officer di Max Mara Fashion Group -. Quando la qualità è altissima e il prodotto è eccellente, ciò che fa davvero la differenza è il modo in cui il cliente vive il brand: la relazione, l’emozione, la personalizzazione».
In questa trasformazione, l’Intelligenza Artificiale gioca un ruolo chiave. «La Generative AI sta cambiando radicalmente il nostro modo di creare valore: oggi possiamo costruire esperienze iper-personalizzate, continue tra digitale e fisico, dove il cliente è sempre al centro. Ma questo è possibile solo se investiamo sulle persone. Senza reskilling, l’AI resta uno strumento di efficienza; con il reskilling, diventa un acceleratore di umanità e di competitività».
Temporiti sottolinea che non si tratta soltanto di formazione tecnica. «Serve una visione strategica del reskilling che comprenda competenze come AI literacy, prompt engineering, sicurezza ed etica del dato. Il dato va gestito con trasparenza e fiducia, perché nella nostra industria la fiducia è parte integrante dell’esperienza di marca».
Ma è anche una questione di competenze umane: «La tecnologia offre insight in tempo reale, ma è l’empatia a trasformarli in relazioni autentiche. Per questo il reskilling deve agire anche sulla comunicazione, sull’ascolto, sulla capacità di creare esperienze emotivamente rilevanti».
Il ragionamento di Temporiti si allarga poi alla “reinvenzione” del lavoro stesso. «Siamo passati dall’era della digitalizzazione, in cui si trattava di ottimizzare processi e ricavi attraverso la tecnologia, a quella della trasformazione, dove abbiamo dovuto ripensare i processi. Oggi siamo nell’era della reinvention: non basta adottare la tecnologia, dobbiamo ridefinire il lavoro, i ruoli, la forza lavoro».
E offre un esempio concreto: «Pensiamo a un commerciale nel retail. Oggi riceve report prodotti dal back office; domani, o meglio già oggi in molte realtà, sarà la macchina a generare quei report in tempo reale, dieci volte più precisi. Il back office non scompare: insegna all’AI cosa analizzare, mentre il commerciale usa quei dati per offrire un’esperienza più personalizzata e significativa. È un nuovo equilibrio tra intelligenza artificiale e intelligenza umana».
Generazioni a confronto: imparare l’uno dall’altro
Nel gruppo Haleon, convivono quattro generazioni, con un’età media molto più alta della media di settore.
«Solo il 3% della popolazione è Baby Boomer e il 7% Gen Z – racconta Beatrice Sandri, Director Human Resources Southern Europe (Italy, Spain, Portugal) –. La componente più consistente della nostra forza lavoro è costituita dalle altre due generazioni, la Generazione X e i Millennials, portatrici di competenze fondamentali e di una profonda conoscenza della relazione con il cliente. Il nostro obiettivo è fare in modo che questo patrimonio non vada perduto».
Per favorire lo scambio di conoscenze, Haleon ha introdotto un sistema di buddying trasversale. «Ogni manager ha un buddy più giovane che lo aiuta a colmare un gap specifico. È un confronto reale, non simbolico: ci si insegna a vicenda. Così le competenze si contaminano e si rigenerano».
Sandri spiega come il vecchio modello 70/20/10 – secondo cui il 70% dell’apprendimento avviene on the job, il 20% attraverso il confronto con colleghi e mentori e solo il 10% tramite formazione formale – sia ormai superato: «Oggi la formazione aziendale è al 40% strutturata e al 60% esperienziale. Le persone imparano di più confrontandosi, osservando, condividendo. Vogliono essere parte di un ecosistema di apprendimento, non semplici fruitori di corsi».
Anche un recente studio interno conferma questa direzione: «Più dell’80% delle persone, distribuite su tutte e quattro le generazioni, ci chiede più opportunità di sviluppo e formazione. È un messaggio molto chiaro: esiste una consapevolezza diffusa del bisogno di lavorare sulle competenze, indipendentemente dall’età o dal ruolo».
La riflessione si intreccia con un punto sollevato da Marco Gallo, che ha richiamato un dato di IBM Research: nel 2025, il 66% dei CEO ritiene che la differenziazione competitiva dipenderà dalle competenze specifiche, non dalle capacità manageriali generiche. «Significa – ha osservato Gallo – che rischiamo di concentrare tutto sulle competenze tecniche, dimenticando il valore della leadership e della visione. È davvero così?»
Sandri risponde: «Sono d’accordo a non essere d’accordo. Le competenze tecniche sono indispensabili, ma non bastano. Lo dice anche il World Economic Forum: il 40% delle competenze cambierà, ma tra le più richieste ci sono curiosità, flessibilità, capacità di apprendere e di collaborare. Sono qualità che non possono essere delegate alla tecnologia. L’AI ci dà dati e potenza di calcolo, ma la differenza la fa la nostra capacità di interpretarli e trasformarli in valore».
E aggiunge: «In Haleon stiamo lavorando su due piani paralleli: da un lato, lo sviluppo delle competenze digitali; dall’altro, la revisione della cultura aziendale, partendo da una domanda semplice ma cruciale: cosa significa collaborare oggi? Per noi significa saper facilitare, far emergere le diversità e sfidarsi reciprocamente per trovare le soluzioni migliori. La tecnologia non può sostituire questa parte del lavoro umano: può solo amplificarla. È una vera e propria partnership tra persone e AI».
Formazione aziendale e HR: il motore del cambiamento
«Il rischio più grande per le organizzazioni – ha osservato Cristiano Colombari, Director di Mylia – è continuare a gestire la formazione con logiche di pianificazione annuale, quando il cambiamento è ormai continuo. Bisogna immaginare la formazione aziendale come un cantiere sempre aperto, dove si lavora per competenze dinamiche e non più per ruoli».
Colombari evidenzia come le aziende stiano evolvendo verso vere e proprie skill-based organization, in cui il valore non risiede più nelle job description ma nella capacità di attivare e combinare competenze diverse in base ai progetti. «Le persone – spiega – non sono più identificate dal job title, ma da ciò che sanno fare e dal contributo che possono portare in contesti differenti. È un cambio di prospettiva radicale, che rende la formazione aziendale un motore continuo di evoluzione».
E questo richiede anche un approccio più proattivo: «L’Intelligenza Artificiale può raccogliere quotidianamente i “learning need”, mappare le competenze emergenti e aiutare manager e HR a costruire percorsi personalizzati. Ma la vera trasformazione è culturale: l’HR deve diventare abilitatore di ecosistemi di competenze, non mero erogatore di corsi».
E avverte: «Quando si investe in tecnologia senza accompagnare il cambiamento culturale, i risultati non arrivano. Lo dimostrano i dati McKinsey: un terzo delle aziende che ha introdotto AI agentica ha dovuto riassumere personale per errori di implementazione. Non è la tecnologia che fallisce, siamo noi quando non la integriamo nella cultura organizzativa».
Aggiunge poi una riflessione sul ruolo dell’AI come strumento di analisi e apprendimento. «Dobbiamo imparare a sfruttare al massimo le potenzialità degli strumenti digitali – ha osservato rispondendo a una provocazione di Marco Gallo -. Stiamo sperimentando l’uso di AI agent capaci di condurre interviste all’interno dell’organizzazione per rilevare comportamenti agiti, competenze sottostanti e sentiment delle persone rispetto al proprio ruolo. Le risposte vocali, più ricche e spontanee, ci consentono di comprendere sfumature e percezioni che i questionari tradizionali non colgono».
Il valore di questi esperimenti è duplice: «La macchina ci restituisce una fotografia sorprendente – spiega Colombari -. Partendo da dati relativi a sedici famiglie professionali, l’AI ci mostra che le competenze effettive si raggruppano in nove cluster principali. Questo ci aiuta a capire dove stiamo frammentando troppo, come creare maggiore interdipendenza e interdisciplinarità, e come ripensare i team in base a ciò che le persone sanno realmente fare».
Ma, sottolinea, il dato da solo non basta. «È fondamentale la qualità delle informazioni di partenza. Se i dati sono buoni, la tecnologia accelera i processi; se non lo sono, la Generative AI può comunque aiutarci a interpretarli meglio, a ricostruire connessioni e a restituire senso. L’obiettivo non è sostituire il giudizio umano, ma amplificarlo, creando una visione più completa e dinamica delle competenze in azienda».









