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Polimi: gli smart worker in Italia raggiungono quota 305mila. Progetti strutturati nel 36% delle grandi imprese

Cresce lo Smart Working e i lavoratori agili sono più soddisfatti, digital e produttivi (+15%). «Le aziende italiane non hanno più alibi per rimandare una riorganizzazione del lavoro più intelligente, in grado di dare nuovo slancio al Paese, con benefici potenziali di 13,7 miliardi di euro», commenta Mariano Corso, Direttore dell’Osservatorio Smart Working

Pubblicato il 12 Ott 2017

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Il 2017 verrà ricordato come l’anno della legge sullo Smart Working, la modalità di esecuzione di lavoro subordinato che prevede, mediante accordo tra le parti, forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro, e con l’utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

«La nostra legge è la più evoluta d’Europa, le aziende italiane non hanno più alibi per rimandare l’introduzione di quello che rappresenta un pilastro per una riorganizzazione del lavoro più intelligente, con vantaggio reciproco tra le parti. Aumento di produttività, meno assenteismo e costi, lavoratori più motivati e capaci di esprimere talento e passioni, una società più giusta, sostenibile e inclusiva», così ha esordito Mariano Corso, Responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, alla presentazione dei risultati della sesta edizione dell’Osservatorio.

Oggi i vantaggi dello Smart Working sono quantificabili: un progetto maturo porta a un incremento di produttività del 15% per lavoratore, che a livello di Sistema Italia significa 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi, considerando una base potenziale di 5 milioni di persone che potrebbero aderire (per tipologia di attività compatibile) e ipotizzando una pervasività al 70% dei lavoratori interessati. I vantaggi per i lavoratori si misurano anche in termini di riduzione dei tempi e costi di trasferimento, di miglioramento del work-life balance e aumento della motivazione e soddisfazione. Considerando anche solo una giornata a settimana di remote working, il tempo risparmiato in un anno è di 40 ore a testa, risparmio che per l’ambiente significherebbe una riduzione di emissioni pari a 135 kg di CO2 all’anno.

Ma di fatto quanti sono oggi gli smart worker e che livello di maturità hanno le grandi imprese, le PMI e la pubblica amministrazione in tema di lavoro agile? La ricerca condotta su 206 grandi imprese e 567 PMI rileva che gli smart worker oggi sono 305mila – l’8% del totale dei lavoratori -, con una crescita del 14% rispetto al 2016 (erano 250mila) e del 60% rispetto al 2013.

In particolare, cresce l’adozione nelle grandi imprese: il 36% ha già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016), una su due ha avviato o sta per avviare un progetto di Smart Working. Tuttavia, le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro, che riguarda anche lo sviluppo di nuovi strumenti e competenze digitali (anche digital soft skill) e la diffusione di modelli manageriali basati su autonomia e responsabilizzazione sui risultati, sono ancora limitate e riguardano solo il 9% delle grandi aziende italiane.

Anche tra le PMI cresce l’interesse, anche se a livello più informale: il 22% ha progetti in corso, ma di queste solo il 7% ha introdotto iniziative strutturate; un altro 7% non conosce il fenomeno e il 40% si dichiara “non interessato” (per ulteriori dati e approfondimenti rimandiamo a un articolo specifico sull’indagine dell’Osservatorio sulle PMI che pubblicheremo nei prossimi giorni). Nella Pubblica Amministrazione solo il 5% degli enti ha attivi progetti strutturati e un altro 4% pratica lo Smart Working informalmente, ma a seguito della legge Madia c’è un notevole fermento: il 48% ritiene l’approccio interessante, un ulteriore 8% ha già pianificato iniziative per il prossimo anno e solo il 12% si dichiara non interessato.

Ma cosa c’è sotto la punta dell’iceberg, sotto gli aspetti visibili dell’adozione di questa modalità di lavoro, abilitata oggi dalle tecnologie digitali? «C’è un’interpretazione ancora superficiale dello Smart Working – commenta Corso -. Nella maggior parte dei casi si dà enfasi solo a una delle leve, il lavoro in remoto (“remote working”), mentre le organizzazioni che hanno progetti strutturati hanno compreso la necessità di basare il lavoro sulla valutazione dei risultati (“result based organization”), con un monitoraggio dell’andamento dei progetti. Purtroppo, esclusi i casi evoluti, il rischio è quello di fermarsi solo all’effetto ‘moda’, anche per i limiti nella cultura manageriale delle imprese nel nostro Paese».

Il 47% delle aziende che ha attivo lo Smart Working lo limita infatti alla possibilità di lavorare da casa, da altre sedi o in spazi esterni come co-working o business center. Come è superficiale l’approccio di quel 5% che si è limitato a riprogettare gli uffici, per esempio togliendo la scrivania personale, mentre il restante 47% combina questi due aspetti. Anche la popolazione coinvolta è ancora limitata: circa il 10% nei progetti pilota, con percentuali che arrivano al 38% in progetti in espansione o a regime. Inoltre il modello di remote working più frequente è di 4 giorni al mese (43%), seguito da 8 giorni al mese (22%) e solo nei casi più maturi (quel 9% complessivo delle grandi aziende) non viene posto alcun limite e comunque solo nell’11% dei casi.

«C’è ancora molto da fare per rendere lo Smart Working un’occasione di cambiamento profondo della cultura organizzativa – dice Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working -. Occorre pensare a modalità di lavoro innovative anche per la maggioranza dei lavoratori esclusi da questi progetti, soprattutto nelle PMI e nelle pubbliche amministrazioni dove, nonostante gli apprezzabili sforzi a livello normativo, la diffusione è tutt’altro che incoraggiante. Le azioni di sistema portano a sperare in un cambio di passo per il prossimo anno, in cui lo Smart Working possa rivelarsi un’occasione di rilancio per tanti lavoratori».

Gli ostacoli principali all’adozione di questo modello non solo flessibile, ma soprattutto basato su responsabilizzazione e autonomia, sono, al primo posto, la non applicabilità alla specifica realtà (55% dei casi) e, al secondo posto, la mancanza di interesse e presenza di resistenze da parte dei capi (45%). Questo vale anche per le PMI, mentre la PA mette ancora al secondo posto la mancanza di regolamentazione al suo interno.

Quanto ai trend dei prossimi tre anni, comunque, le previsioni sono ottimistiche. La gran parte delle organizzazioni con un progetto strutturato di Smart Working prevede di estendere l’accesso a più persone (74%), di sviluppare nuove forme per figure professionali finora escluse (63%) e di diffondere una cultura basata sulla definizione di obiettivi, la responsabilizzazione sui risultati e la valutazione delle performance (63%).

Sotto la punta dell’iceberg, infatti, si nascondono moltissime opportunità per l’evoluzione delle nostre organizzazioni e il loro rilancio: aumento di produttività, un nuovo stile di leadership, valorizzazione dei talenti, conciliazione, inclusività e sostenibilità, employer branding. Sviluppo delle competenze digitali, business continuity, result based culture, più opportunità per una leadership femminile, meritocrazia e sostenibilità ambientale.

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