I riposi compensativi sono periodi di riposo concessi ai lavoratori in compensazione per il lavoro straordinario o per il lavoro svolto in giorni in cui normalmente non si lavora, come i giorni festivi. In altre parole, sono ore o giorni di riposo aggiuntivi che vengono dati per compensare l’eccedenza di ore lavorate oltre l’orario normale. La loro finalità è triplice: salvaguardare la salute e sicurezza, mantenere un equilibrio tra vita professionale e vita privata e rispettare le normative sul lavoro che regolamentano il numero massimo di ore lavorative e il riposo obbligatorio. Sono diverse le situazioni che li portano a maturare: si va da quando un dipendente lavora oltre il normale orario di lavoro settimanale, a quando lo fa in giorni festivi o domenicali. In alcuni casi, anche il lavoro notturno o i turni particolarmente lunghi possono richiedere riposi compensativi.
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Che cosa dice la normativa
La regolamentazione dei riposi compensativi può variare a seconda del paese e del contratto collettivo di lavoro. In Italia, per esempio, il Decreto Legislativo 8 aprile 2003, n. 66 disciplina l’orario di lavoro e i riposi compensativi. Il calcolo dei riposi compensativi dipende dalle specifiche del contratto collettivo di lavoro e dalle normative aziendali. Generalmente, il numero di ore di riposo compensativo dovrebbe essere equivalente al numero di ore di lavoro straordinario svolto.
Il ristoro delle ore e dei giorni di mancato riposo non può essere frazionato. Al contrario, deve essere concessa la fruizione dei riposi compensativi in via continuativa o cumulabile con i riposi giornalieri e/o settimanali previsti.
Questo è quanto ribadito di recente dalla Corte di Cassazione che, con l’ordinanza n.18390/2024, richiamando la normativa europea di riferimento, ha evidenziato che nei casi di mancato godimento del giorno di riposo settimanale, il riposo compensativo deve essere tempestivo, attiguo ad altri periodi di riposo e non frazionato. E ciò, nel rispetto delle finalità cui tende la norma.
Una condotta contraria a tali principi potrebbe produrre danni da usura (psico-fisica) al lavoratore.
Ma procediamo con ordine.
Che cosa ha detto la Corte d’Appello di Lecce sui riposi compensativi
In parziale riforma della sentenza appellata, la Corte d’Appello di Lecce ha condannato una società a pagare in favore di un lavoratore una somma a titolo di risarcimento del danno per il mancato rispetto dell’obbligo di attribuire in un dato arco temporale (tra il luglio 2003 e l’agosto 2008) il riposo minimo giornaliero di 11 ore consecutive e di quello settimanale di 45 ore imposto dai Regolamenti CE 3820/85 e 561/06.
Richiamando orientamenti giurisprudenziali di legittimità, la Corte d’Appello ha respinto le doglianze formulate dalla società ed ha affermato che “gravava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare il fatto astrattamente impeditivo o estintivo del diritto del lavoratore a conseguire il risarcimento del danno per mancato godimento dei riposi“.
Sulla scorta di ciò, la Corte di merito ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui quest’ultima aveva accertato la sussistenza dell’an debeatur (i.e. ha confermato la sussistenza del diritto del lavoratore al risarcimento del danno) ed ha conseguentemente quantificato tale risarcimento – derivante da danno non patrimoniale – secondo equità.
La parola alla Corte di Cassazione
A questo punto, la società ha proposto ricorso per Cassazione, che a sua volta ha rigettato.
I Giudici hanno ripercorso l’iter decisionale osservato della Corte di appello di Lecce, la quale ha analizzato la normativa comunitaria, richiamando in particolare il paragrafo 7 del Reg. CEE che afferma: “Qualsiasi riposo preso a compensazione di un periodo di riposo settimanale ridotto è attaccato ad un altro periodo di riposo di almeno 9 ore“.
Sulla scorta di tale normativa la Corte leccese “ha correttamente affermato che il recupero delle ore di mancato riposo non può essere frazionato, dovendo essere continuativo o cumulabile con i riposi giornalieri e/o settimanali previsti“.
Facendo applicazione pratica del suddetto principio, la Corte territoriale ha altresì affermato che “il danno da usura non può essere adeguatamente ristorato dalla successiva compensazione con riposi concessi in tempo successivo rispetto alla previsione legale e contrattuale della loro fruizione, atteso che la penosità da protratto espletamento della prestazione lavorativa incide in misura più che proporzionale rispetto alla durata della prestazione richiedendo un crescendo dispendio di energie lavorative“.
In buona sostanza, è stato affermato che la fruizione intempestiva di riposi, anche in prosecuzione di altri, diventa quindi inutile e si pone appunto in contrasto con la normativa UE.
A parer dei Giudici di Cassazione, il ragionamento della Corte di merito appare corretto e, peraltro, pienamente in linea con gli orientamenti di legittimità “sia sul danno da usura lavorativa, sia sui contenuti della normativa comunitaria“.
L’apprezzamento della Corte di Cassazione non è soltanto rivolto ai principi giuridici richiamati dai giudici d’appello al fine della propria decisione bensì, altresì al concreto modus operandi dei giudici di merito i quali hanno “accertato il sistematico prolungamento dell’attività lavorativa, non intervallata da adeguati riposi tra un turno e l’altro; ed effettuato altresì il corretto governo delle regole sulla ripartizione dell’onere della prova, ricadendo in effetti sull’impresa datrice la prova del fatto impeditivo del determinarsi del pregiudizio da usura psicofisica quale la concessione di riposi compensativi, comunque apprezzata con valutazione negativa incentrata sulla sporadicità del ricorso alla compensazione tardiva, parimenti non contestata“.
Riposi compensativi: se non gestiti opportunamente si rischiano danni da usura psico-fisica
Calandosi nel caso concreto, i giudici d’appello hanno concluso che il danno da usura psicofisica risulta accertato sulla base di una valutazione che “ha tenuto conto della gravosità della prestazione, apprezzata con riguardo alla frequenza dei mancati tempestivi riposi ed alla durata del complessivo periodo di riferimento ed altresì determinato in via equitativa con riferimento alla disciplina contrattuale più congrua rispetto alla situazione di fatto” (la Corte territoriale ha infatti inteso valorizzare il dato dell’eccedenza oraria determinata dalla mancata fruizione dei riposi) che come ritenuto dalla Corte di Cassazione non può essere confusa con la maggiorazione contrattualmente prevista per la coincidenza di giornate di festività con la giornata di riposo settimanale.
Su tal preciso punto, la Corte di Cassazione ha richiamato i fondamentali orientamenti giurisprudenziali di legittimità in funzione nomofilattica:
- con sentenza n. 14710 del 14 luglio 2015, la Cassazione ha affermato che “la prestazione lavorativa, svolta in violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali – nella specie, la guida di autobus senza fruire di un riposo minimo di 11 ore giornaliere e un riposo settimanale di 45 ore consecutive – protrattasi per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, di natura non patrimoniale e distinto da quello biologico, la cui esistenza è presunta nell'”an” in quanto lesione del diritto garantito dall’art. 36 Cost., mentre, ai fini della determinazione del “quantum”, occorre tenere conto della gravosità della prestazione e delle indicazioni della disciplina collettiva intesa a regolare il risarcimento “de qua”, da non confondere con la maggiorazione contrattualmente prevista per la coincidenza di giornate di festività con la giornata di riposo settimanale“.
- con ordinanza n. 12538 del 10 maggio 2019, la Cassazione ha chiarito che “in tema di orario di lavoro, la prestazione lavorativa “eccedente”, che supera di gran lunga i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva e si protrae per diversi anni, cagiona al lavoratore un danno da usura psico-fisica, dovendo escludersi che la mera disponibilità alla prestazione lavorativa straordinaria possa integrare un “concorso colposo”, poiché, a fronte di un obbligo ex art. 2087 c.c. per il datore di lavoro di tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, la volontarietà di quest’ultimo, ravvisabile nella predetta disponibilità, non può connettersi causalmente all’evento, rappresentando una esposizione a rischio non idonea a determinare un concorso giuridicamente rilevante“.
- con ordinanza n. 18884 del 15 luglio 2019, la Cassazione ha affermato statuito che “la mancata fruizione del riposo giornaliero e settimanale, in assenza di previsioni legittimanti la scelta datoriale, è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto, perché l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento del datore ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione del predetto interesse espone direttamente il datore medesimo al risarcimento del danno“.
La giurisprudenza di legittimità ha altresì affermato che i dipendenti hanno sempre diritto alla fruizione del necessario riposo che dovrà essere sempre garantito dal datore di lavoro, trattandosi di diritto indisponibile. “La mancata fruizione del riposo settimanale è fonte di danno non patrimoniale che deve essere presunto perché l’interesse del lavoratore leso dall’inadempimento datoriale ha una diretta copertura costituzionale nell’art. 36 Cost., sicché la lesione dell’interesse espone direttamente il datore al risarcimento del danno“.
La Corte di Cassazione ha ritenuto dunque di dare continuità ai principi nomofilattici espressi finora su tematiche analoghe a quella in esame e, in ragione della continuità giurisprudenziale cui dare valore, la Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata fosse conforme ai principi di diritto nazionali e sovranazionali ed ha rigettato definitivamente il ricorso proposto dalla società.