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Trasparenza retributiva: stop alle offerte di lavoro senza indicare lo stipendio, lo vuole l’Ue



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Dall’obbligo di informare i candidati sul compenso economico alla possibilità di richiedere informazioni sul livello retributivo individuale e medio, ripartito per sesso, delle categorie che svolgono la stessa mansione. La nuova direttiva europea promette di rivoluzionare il mercato e di promuovere la parità salariale tra uomini e donne

Pubblicato il 4 mag 2023



Trasparenza retributiva

La nuova direttiva sulla trasparenza retributiva votata dal Parlamento europeo promette di dare un forte impulso al superamento del gender pay gap, e al tempo stesso di ribilanciare il potere contrattuale tra aziende e candidati al tavolo delle assunzioni.

Cosa prevede la direttiva sulla trasparenza retributiva europea

La direttiva, che prende forma il 4 marzo 2021 con la pubblicazione della proposta sulla trasparenza salariale da parte della Commissione europea e porta a termine il suo iter con l’adozione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea nella plenaria del 30 marzo 2023, si pone l’obiettivo di “rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” e viene applicata ai datori di lavoro del settore pubblico e privato.

Entrando nel dettaglio, l’Articolo 5 prevede che i candidati a un impiego abbiano il diritto di ricevere dal potenziale datore di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla relativa fascia da attribuire alla posizione in questione. Tali informazioni devono essere fornite in modo tale da garantire una trattativa informata e trasparente sulla retribuzione, ad esempio in un avviso di posto vacante pubblicato, prima del colloquio di lavoro. Ciò significa che la retribuzione (o la fascia retributiva) non deve necessariamente essere indicata sull’offerta di lavoro pubblicizzata, ma, al più tardi, deve essere comunicata dal datore di lavoro in sede di primo colloquio. Inoltre, sempre l’Articolo 5 vieta al datore di lavoro di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro.

Gli articoli a seguire, in un’ottica di totale trasparenza retributiva, non solo poi obbligano a rendere facilmente accessibili ai propri lavoratori i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica dei lavoratori. Non solo, affermano anche il diritto dei lavoratori a richiedere e ricevere per iscritto informazioni sul proprio livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. Tali informazioni devono essere fornite in tempi ragionevoli, ossia entro due mesi dalla richiesta. La direttiva impone altresì agli Stati membri di attuare misure che vietino clausole contrattuali finalizzate a limitare la facoltà dei lavoratori di rendere note informazioni sulla propria retribuzione, in sintesi: l’Ue dice stop al segreto salariale.

Infine, sulla tutela dei diritti, le aziende sono chiamate a correggere eventuali disparità retributive rilevate sino al risarcimento della parte lesa qualora non dovessero rispettare le misure sulla trasparenza e sulla parità salariale. Novità nella novità è l’inversione dell’onere della prova, ossia spetterà al datore di lavoro provare l’insussistenza della discriminazione retributiva diretta o indiretta in caso di contenzioso legale con il lavoratore.

I tempi della direttiva e le realtà interessate

La direttiva sulla trasparenza retributiva entrerà in vigore venti giorni dopo dalla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Ue. Successivamente, gli Stati membri avranno tre anni per recepire la direttiva, adeguando la rispettiva legislazione nazionale per includere le nuove norme. A tali obblighi dovranno essere sottoposte le aziende grandi e medie, ovvero, seconda diversa modalità quelle oltre i 250 lavoratori, quelle che hanno tra i 150 e 249 lavoratori e quelle tra i 100 e i 149 lavoratori.

Per le aziende più piccole non sussisterà alcun obbligo, tuttavia gli Stati membri possono, in base al proprio diritto nazionale, imporre ai datori di lavoro con meno di 100 lavoratori di fornire informazioni sulla retribuzione. Il che lascia un po’ da pensare, anche in considerazione del particolare tessuto economico produttivo italiano. Secondo, infatti, i dati Censis-Confcooperative riferiti al 2022, su un totale di poco meno di cinque milioni e mezzo di imprese distribuite sul nostro territorio, il 94,8% è composto da piccole, piccolissime e micro imprese, tutte con meno di dieci addetti occupati. L’auspicio è che, qualora lo Stato italiano decidesse di non imporre alcun obbligo di trasparenza salariale a queste realtà, il forte cambiamento culturale impresso dalla direttiva europea le coinvolga ugualmente rendendole consapevoli dei diritti dei lavoratori nell’ambito della parità retributiva.

Stipendio nell’offerta di lavoro: il gioco delle retribuzioni al ribasso si chiude qui

Giorni contati per la “retribuzione commisurata all’esperienza pregressa”, e se non si tratta proprio giorni, ma bensì di qualche anno, è certo che la strada intrapresa dall’Ue punta dritto verso questa direzione.

La direttiva sulla trasparenza retributiva voluta dal Parlamento europeo, oltre a sostenere la parità salariale, ha infatti il merito di scardinare una prassi ormai consolidata che vede i recruiter giocare al ribasso sulla definizione dello stipendio in fase di colloquio di lavoro. Il trucco è semplice: approfittando degli alti tassi di disoccupazione e quindi della propria posizione di potere sul candidato, insieme alla consapevolezza di un certo imbarazzo nel parlare di retribuzione diffuso tra i lavoratori insito nella nostra cultura, i recruiter sono soliti chiedere loro le aspettative di retribuzione, se non proprio la retribuzione dell’ultimo lavoro svolto. Questa mossa, nel caso che la cifra indicata dal candidato fosse inferiore alla cifra che l’azienda sarebbe disposta a spendere per la posizione, consente automaticamente di abbassare la voce di costo relativa all’assunzione (caso più frequente). Viceversa, sulla base del livello di competenze rilevate durante la selezione e di un’altra serie di fattori come per esempio il numero di candidature ricevute, consentirebbe di rimodulare in corso d’opera la propria idea di proposta economica senza discostarsi troppo dalla cifra auspicata dalla risorsa. Insomma, appare chiaro come il coltello dalla parte del manico per quanto riguarda il salario, in un caso o nell’altro, ad oggi sia in mano all’azienda.

L’obbligo (futuro) di dichiarare la retribuzione nell’annuncio di lavoro o al più tardi in sede di primo colloquio decreta dunque la fine di questo modus operandi, imponendo alle aziende di giocare a carte scoperte e al candidato di avere le informazioni per poter decidere se la retribuzione offerta per una determinata posizione sia in linea o meno con le aspettative senza perdere tempo nell’innescare un processo di selezione che, in ogni caso, non sarebbe andato a buon fine.

Vantaggi e svantaggi della trasparenza retributiva

Con l’obbligo di trasparenza retributiva, se da un lato, come abbiamo appena visto, le aziende perdono il predominio di una leva strategica in ambito di definizione dei termini economici del contratto, è altrettanto vero che un’offerta di lavoro contenente anche la voce retribuzione risulti essere maggiormente efficace, aspetto certamente non privo di importanza specialmente in un mercato del lavoro affamato di competenze qualificate. Lo dimostrano diversi studi, tra questi anche quello recentemente realizzato dalla piattaforma americana per la creazione dei CV Resume Builder secondo cui ben l’85% dei 1.200 lavoratori intervistati afferma di essere più propenso a candidarsi per un lavoro che riporti una fascia salariale definita. La trasparenza retributiva comporta quindi vantaggi e svantaggi, riassumiamo qui i principali.

I vantaggi della trasparenza salariale

Oltre a ridurre il gender pay gap e lo sfruttamento dei lavoratori, ora informati su quanto realmente l’azienda è disposta a spendere per la posizione offerta e quindi in grado di scegliere consapevolmente se candidarsi o meno per il ruolo (incentivando così una migliore candidate experience), la trasparenza salariale aumenta la soddisfazione dei lavoratori e la fiducia verso l’azienda stessa in cui lavorano con conseguente crescita del livello di employee engagement.

Gli svantaggi della trasparenza salariale

Se di “svantaggio” si può parlare (naturalmente dipende dai punti di vista, e chi scrive pensa decisamente che non lo sia), è altresì chiaro che la trasparenza salariale toglierà potere contrattuale alle aziende che, si sa, benché oggi si parli tanto di “capitale umano” quale asset strategico sul quale investire, visualizzano ancora generalmente il lavoratore come una voce di costo da abbattere il più possibile per il raggiungimento di massimi profitti. Ma non solo.

Una volta applica, la trasparenza salariale porterà certamente scompiglio in gran parte delle organizzazioni nel momento in cui i dipendenti avranno modo di verificare quanto guadagnano i colleghi andando a penalizzare inesorabilmente il clima di lavoro e la motivazione, finanche a portare alle dimissioni volontarie della risorsa.

Mettere nero su bianco gli stipendi, inoltre, potrebbe scatenare un gioco al rialzo senza fine tra le aziende per accaparrarsi i talenti migliori sino ad indurle, nella peggiore delle ipotesi, ad abbandonare il mercato in cui si trovano, ossia il Paese, verso mercati in cui il costo del lavoro è più basso (il che non sarebbe una novità, ma senza il “cuscinetto” dell’assenza di trasparenza le aziende perderebbero anche quel margine di libertà d’azione che le può rendere più competitive, naturalmente sulla pelle dei lavoratori).

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