Gender gap

Gender Pay Gap: cause, numeri e azioni per colmare il divario retributivo di genere

Stereotipi di genere, disponibilità di ore ridotta, interruzioni di carriera sono fattori che contribuiscono ad acuire le differenze. E se rispetto alle opportunità sul lavoro per le donne l’Italia si trova ancora molto indietro rispetto alla classifica globale, il Paese è pronto a rispondere con la nuova legge sulla parità salariale che prevede anche l’introduzione di una certificazione della gender equity sul posto di lavoro

Pubblicato il 23 Nov 2022

Gender Pay Gap

Lo richiede anche l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile firmata nel 2015 dai 193 Paesi membri delle Nazioni Unite: entro il 2030 bisognerà aver raggiunto la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini e la parità di retribuzione per lavoro di pari valore (Goal 8.5 – Lavoro dignitoso e retribuzione), ma non solo. Entro il 2030 bisognerà arrivare a riconoscere e valorizzare il lavoro di cura e il lavoro domestico non retribuiti tramite la fornitura di servizi pubblici, infrastrutture e politiche di protezione sociale e la promozione della responsabilità condivisa all’interno del nucleo familiare, secondo le caratteristiche nazionali (Goal 5.4 – Parità di genere). Una premessa necessaria per sottolineare come il Gender Pay Gap sia un problema di carattere globale che ostacola il percorso verso la sostenibilità sociale ed economica.

Cos’è il Gender Pay Gap

Facciamo un attimo chiarezza: con il termine Gender Pay Gap, tradotto in italiano “divario retributivo di genere”, si intende la differenza nella retribuzione oraria lorda media tra donne e uomini che, dati alla mano, risulta essere praticamente sempre a svantaggio delle prime. Per la precisione, a questa definizione corrisponde ciò che viene tecnicamente chiamato Gender Pay Gap “non corretto” (o “grezzo”) che tiene dunque in considerazione solo il salario orario medio. Esiste anche un Gender Pay Gap “corretto” (o “complessivo”) che, oltre al salario orario medio, tiene conto di quelle caratteristiche individuali che potrebbero spiegare una parte del divario salariale come le differenze di occupazione, il livello di istruzione e l’esperienza lavorativa.

Se ne deduce che il Gender Pay Gap non corretto è l’indicatore più semplice da rilevare ed è per questo che costituisce il parametro di riferimento per mettere a confronto il divario retributivo di genere tra i vari Paesi. Il rovescio della medaglia di questo valore sta nel fatto che, non dando indicazioni più approfondite sulla disparità salariale tra uomini e donne per categoria professionale, occupazione, settore di attività, non fornisce la corretta misura della discriminazione di genere nel mercato del lavoro.

Le cause dietro il Gender Pay Gap

Il Gender Pay Gap è un problema complesso determinato da più fattori correlati, tra questi i più evidenti sono legati alla discriminazione di genere, alla differenza nell’ambito dei settori di lavoro, delle ore lavorate, degli anni di esperienza acquisiti.

Entriamo più nel dettaglio.

Le aspettative di genere hanno storicamente indotto a inquadrare tra i cosiddetti lavori femminili attività che tendono a offrire una retribuzione inferiore e minori benefici rispetto ai cosiddetti lavori maschili, come l’assistenza sanitaria a domicilio, l‘assistenza all’infanzia, i servizi domestici, la vendita o l’istruzione. Un aspetto questo sul quale si sta acquisendo sempre più consapevolezza ingaggiando vere e proprie campagne di sensibilizzazione contro il Dream Gap, ossia quel fenomeno, documentato la prima volta nel 2017 in uno studio condotto dalla New York University insieme alle Università dell’Illinois e di Princeton, per cui le bambine intorno ai 6 anni smettono di sognare determinate carriere perché si credono troppo poco intelligenti rispetto ai coetanei maschi. Ciò avrebbe un impatto determinante sulle loro aspirazioni e futuro professionale.

È anche per questi stereotipi di genere diffusi che, come evidenzia un’indagine Openpolis, nel 2020 solo il 15,6% delle donne in Italia risulta impegnato in settori tecnico-scientifici rispetto al 18,3% degli uomini. Le discriminazioni di genere esistono poi anche negli stessi ambiti lavorativi all’interno dei processi di assunzione e in merito alla retribuzione con le donne fortemente sotto rappresentate nei ruoli dirigenziali e meno pagate per ricoprire i medesimi ruoli dei colleghi maschi.

L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica rileva che il salario medio per una laureata magistrale a 5 anni dalla laurea corrispond3 a 1.403 euro netti mensili, mentre un laureato maschio guadagna in media 1.696 euro, generando una differenza di 293 euro, pari al 21% del salario femminile.

Poiché ad oggi è per lo più sulle donne che ricadono le esigenze di assistenza familiare – non a caso si parla di donne della Generazione Sandwich, ossia schiacciate tra l’accudimento dei figli, dei nonni e il lavoro – è più probabile che le donne accettino lavori part-time. Tuttavia se si sommano le ore settimanali di lavoro di una donna, tra lavoro retribuito e non, risulta addirittura che le donne lavorano più ore degli uomini guadagnando meno.

Inoltre, le responsabilità familiari sono spesso motivo di interruzione di carriera per le donne, che così, a conti fatti, accumulano meno esperienza nel tempo rispetto agli uomini, e rischiano di perdere anche opportunità chiave di crescita nei periodi di lontananza dal lavoro.

Ed è guardando a questi ultimi due aspetti che appare più chiara l’indicazione contenuta nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile che richiama alla necessità di riconoscere e valorizzare il lavoro di cura e il lavoro domestico non retribuiti per il raggiungimento di una parità di genere.

I numeri del Gender Pay Gap in Europa e in Italia

Guardando l’ultima rilevazione Eurostat che mette a confronto il Gender Pay Gap non corretto tra i Paesi dell’Ue si apprende che in media il divario retributivo di genere è del 13%, ciò significa che le donne guadagnano in media il 13% in meno all’ora rispetto agli uomini. Esistono però notevoli differenze tra i Paesi Ue: in cima alla classifica il Lussemburgo con un Gender Pay Gap (non corretto) dello 0,7%, in fondo la Lituania con un Gender Pay Gap (non corretto) del 22,3%, tra questi due estremi gli altri 26 Paesi con l’Italia che registra un Gender Pay Gap (non corretto) del 4,2%.

Un buon risultato si potrebbe commentare se non fosse che, allargando l’analisi a quegli aspetti che condizionano il divario salariale, si prende atto come l’Italia sia ancora lontana dall’azzerare il divario retributivo di genere. Secondo i dati riportati dal Global Gender Gap Report 2022 realizzato dal World Economic Forum, l’Europa si colloca al terzo posto nel sottoindice “Partecipazione economica e opportunità”, dopo il Nord America, l’Asia orientale e il Pacifico, chiudendo il 70,2% (oltre la media globale ferma al 60,3%) del divario di genere su questo sottoindice che raggruppa tre concetti: il gap di partecipazione alla vita lavorativa, il gap retributivo e il divario di avanzamento.

Svezia, Lettonia e Islanda sono i Paesi europei che guidano la classifica regionale. Pessima performance per l’Italia che si colloca al 110° posto su tutti i 146 Paesi coperti dal report, dopo la Macedonia del Nord in posizione 106 e meglio solo della Bosnia Erzegovina alla posizione 116. E questi tre Paesi sono anche gli unici stati europei che hanno chiuso meno del 70% del proprio Gender Gap relativo all’indicatore in questione. Interessante sapere che a livello globale il Wef ha calcolato che saranno necessari 151 anni per chiudere il Gender Gap nella Partecipazione economica e opportunità e che nella classifica complessiva che comprende tutti gli indicatori del Gender Gap l’Italia si è collocata al 63° posto.

Quali azioni sono state messe in campo per ridurre il Gender Pay Gap

Poiché il Gender Pay Gap è dunque il risultato dei fattori sociali ed economici che si combinano per ridurre la capacità di guadagno delle donne nel corso della loro vita, appare evidente che per ridurlo sia necessario andare oltre la semplice garanzia di parità retributiva. Ciò che si richiede, infatti, è un vero e proprio cambiamento culturale per rimuovere le barriere alla piena ed equa partecipazione delle donne alla forza lavoro, che tradotto in azioni pratiche significa:

  • sviluppare una legislazione più accurata e aggiornata sull’argomento;
  • attuare politiche per la conciliazione famiglia-lavoro (es. congedo parentale, congedo di maternità e di paternità, Smart Working, part-time e altro) che tutelino le donne dagli svantaggi generati dal dover farsi carico della gran parte delle responsabilità legate all’assistenza familiare;
  • fare azione di sensibilizzazione verso il superamento dei pregiudizi culturali;
  • aumentare la trasparenza retributiva e correggere le disparità salariali all’interno delle organizzazioni.

A tal proposito il Consiglio Europeo nel dicembre dello scorso anno ha approvato una posizione comune su un progetto di atto legislativo sulla trasparenza retributiva con l’intento di contribuire nella lotta alla discriminazione retributiva sul lavoro e a colmare il divario retributivo di genere. Tra le varie responsabilità demandate alle imprese, la norma Ue prevede che i datori di lavoro con almeno 250 dipendenti debbano mettere a disposizione del pubblico informazioni quali il divario retributivo tra lavoratori di sesso femminile e lavoratori di sesso maschile nella loro organizzazione e devono fornire informazioni sul divario retributivo per categoria dei lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore.

Tra le azioni messe in campo dall’Italia per ridurre il Gender Pay Gap non può non essere citata la Legge del 5 novembre 2021 n. 162 sulla parità salariale entrata in vigore il 3 dicembre dello stesso anno. Tra le novità più interessanti promosse dalla legge 162/21 c’è l’introduzione di una certificazione della parità di genere.

L’articolo 4 cita testualmente “A decorrere dal 1° gennaio 2022 è istituita la certificazione della parità di genere al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità”. Sgravi contributivi sono previsti per le aziende private in possesso della certificazione.

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