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Lavoro precario: perché è un danno per persone e aziende



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Secondo uno studio pubblicato su Harvard Business Review esiste una correlazione forte tra la precarietà percepita, i comportamenti e il benessere. Il rischio nel medio-lungo periodo è avere lavoratori demotivati e stressati, meno inclini a seguire le regole e poco focalizzati

Pubblicato il 8 mag 2023



Lavoro precario

Di mese in mese l’Istat comunica il numero dei lavoratori precari in Italia. Ormai si è stabilmente superata la quota di 3 milioni. Un dato, questo del lavoro precario, che dovrebbe impensierire, anche se il recente Decreto Lavoro non mostra particolari misure per arginare il fenomeno, il che, a guardare bene, non va proprio a favore delle aziende. Per vincere le grandi sfide globali emerse in questi ultimi anni, le organizzazioni hanno bisogno di costruire team coesi e coinvolti e ogni persona, ora considerata “capitale umano”, deve essere messa nelle condizioni di esprimere al meglio le sue potenzialità. Puntare al benessere lavorativo oggi è dunque una scelta obbligata per le aziende che non vogliono soccombere ad un mercato del lavoro in affanno per la mancanza di competenze.

Che cosa dicono le indagine sul lavoro precario

Uno studio realizzato dal NIOSH (l’Istituto nazionale americano per la sicurezza e la salute sul lavoro) nel 2021 ha misurato per la prima volta la precarietà del lavoro tra i lavoratori statunitensi. Oltre a elaborare un modello per la misurazione, ha contribuito a comprendere le conseguenze sulla salute del lavoro precario. Analizzando i dati emersi è stato possibile affermare che esisteva un’associazione positiva statisticamente significativa tra stress lavorativo e precarietà lavorativa. I lavoratori impegnati in un lavoro altamente precario avevano il 57% in più di probabilità di riferire di aver subito stress lavorativo rispetto a quelli impegnati in un lavoro a bassa precarietà. Inoltre, gli individui con un lavoro altamente precario riferivano più giorni di malattia e di aver sperimentato un numero maggiore di giorni di limitazione dell’attività rispetto a quelli con un lavoro a bassa precarietà.

C’è di più. Le aziende che puntano al benessere mentale e fisico del capitale umano devono superare la tentazione di prevedere ruoli precari nella propria organizzazione, non solo pensando all’individuo, ma perché è controproducente per le aziende stesse. Più che una strategia per ridurre i costi e spingere i lavoratori a dare di più giocando sull’insicurezza, il lavoro precario nel medio-lungo termine provoca lavoratori demotivati e stressati, meno inclini a seguire le regole, e poco focalizzati. In poche parole, danneggia sia i dipendenti che i datori di lavoro. A sostenerlo anche uno studio realizzato dai ricercatori americani apparso sull’Harvard Business Review.

Lavoro precario, più un ostacolo che un vantaggio per le aziende

Alcuni studi precedenti, spiegano i ricercatori, dimostrano che molti luoghi di lavoro alimentano intenzionalmente i timori di perdita del posto di lavoro nel tentativo di motivare i lavoratori a produrre e ridurre i costi, poiché è meno probabile che i lavoratori insicuri richiedano aumenti e altri benefit. Ora, attraverso l’analisi di oltre 600 sondaggi a lavoratori americani di diversi settori, l’obiettivo del nuovo studio è esplorare la relazione tra la precarietà percepita e i comportamenti sul posto di lavoro.

La scoperta è che, mentre potrebbe aumentare alcune metriche nella valutazione delle prestazioni a breve termine, nel complesso, il risultato di questa strategia è nettamente negativo sia per i dipendenti che per le organizzazioni.

La motivazione dei lavoratori precari ha una scadenza

Accettare attività extra, rimanere sino a tardi, puntare a ottenere buoni risultati. Sono queste le principali risposte che i lavoratori hanno dato ai ricercatori interrogati sui loro comportamenti in una condizione di insicurezza riguardo al proprio posto. Queste reazioni sono abbastanza fisiologiche: se si sta per perdere qualcosa si fa di tutto perché ciò non accada. Tuttavia, soprattutto quando i rapporti di lavoro precari sono prolungati nel tempo, è probabile già dopo tre mesi, come dimostra lo studio, che questo sprint vada perdendo di efficacia per tramutarsi in stati di stress, frustrazione, risentimento sino a manifestazioni più complesse come la sindrome di burnout. Esemplificativa è la risposta di uno dei lavoratori esaminati dalla ricerca: “Ho scoperto che essere preoccupato per il mio lavoro mi rende un lavoratore meno efficace piuttosto che più efficiente”. Attenzione dunque, mettono in guardia gli studiosi, quando si è stressati per il rischio di perdita del lavoro è necessario uno sforzo maggiore per mantenere lo stesso livello di prestazioni, quindi anche se si è più motivati a migliorare, è improbabile che il lavoro extra ripaghi con risultati migliori.

La difficoltà di seguire le regole

Inoltre, i lavoratori precari più vogliono seguire le regole più le contravvengono. Sembrerebbe un po’ un paradosso, ma non lo è. “Faccio costantemente tutto ciò che mi viene chiesto di fare e cerco di volare basso. Temo che se parlo o faccio qualcosa contro la norma, corro il rischio di essere licenziato, soprattutto in tempi così difficili”, ha descritto un insegnante nello studio. Uno si aspetterebbe che dovrebbero essere i soggetti più motivati a non infrangere le regole, ad esempio arrivare in ritardo o produrre un danno alla strumentazione in dotazione, questo per evitare eventuali richiami, mancati rinnovi o interruzioni del rapporto in tronco. Ma lo studio indica per questa categoria più probabilità di infrazione delle regole nei tre mesi successivi all’inizio dell’attività.

Proprio come per le prestazioni, l’autocontrollo necessario per seguire le regole richiede risorse cognitive sostanziali, e così l’aumento del carico mentale causato dalla precarietà del lavoro rende le persone meno in grado di seguire i protocolli anche se lo desiderano. Questo genera addirittura un circolo vizioso nel quale la maggiore precarietà del lavoro porta a una maggiore violazione (non intenzionale), che a sua volta diminuisce ulteriormente la sicurezza del lavoro percepita.

La scarsa focalizzazione e visione di gruppo

Può succedere, infine, che i lavoratori precari dedichino molte energie a tenere informato il capo dei loro contributi, piuttosto che a focalizzarsi su come effettivamente migliorare l’attività o sostenere il team. Secondo lo studio, infatti molti dei lavoratori intervistati hanno dato la priorità a rendere visibile il proprio lavoro rispetto a svolgere compiti che avrebbero potuto essere più preziosi per l’organizzazione, e alcuni avrebbero persino nascosto le informazioni o sabotato intenzionalmente i propri colleghi per apparire meglio in confronto.

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