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Dal talent shortage al benessere, il mondo del lavoro è un mare in tempesta. I numeri dell’Osservatorio HR del PoliMi



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L’88% delle aziende fatica a trovare persone, solo il 9% degli italiani sta bene nel suo impiego e sul malessere pesa l’incapacità di gestire vita lavorativa e privata. “Serve ripartire dalle basi per costruire un approccio orientato alla felicità, che preveda giusto riconoscimento, flessibilità, work-life balance, inclusione, valorizzazione, employability”, sottolinea il Direttore Scientifico, Mariano Corso

Pubblicato il 20 mag 2024



Ossservatorio-HR-2024

In Italia il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è dovuto principalmente alla carenza di persone con le giuste competenze tecniche (57%) e soft (36%). Ma non è tutto: a pesare è anche il divario tra quello che le aziende offrono e quello che le persone si auspicherebbero di avere in termini di stipendio, carriera, flessibilità e stile di vita. Il luogo di lavoro è sempre meno un posto dove le persone “stanno bene”: ad essere felice è appena il 5% e un professionista su tre si è assentato almeno una volta nell’ultimo anno per stress o ansia.

Sono questi alcuni dei dati della ricerca 2024 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano (che ha coinvolto 121 Direzioni HR), presentati in occasione del convegno Navigare nell’incertezza del futuro del lavoro: benessere e AI all’orizzonte”.

Si tratta di numeri che mettono nero su bianco una situazione con cui le aziende devono fare sempre più i conti e mostrano un’oggettiva difficoltà a superare alcuni scogli, malessere in primis.

«Il mercato del lavoro è un mare in tempesta, bisogna in qualche modo riuscire a capire con quali modalità i naviganti possono percorrere e attraversare questo questo mare pieno di scogli, onde, vortici, squali», ha detto in apertura Mariano Corso, il Responsabile Scientifico dell’Osservatorio.

L’Osservatorio HR delinea 4 fenomeni da tenere sotto controllo nel 2024

Talent shortage, grandi dimissioni, malessere diffuso tra i lavoratori, reskilling e Artificial Intelligence: sono questi i quattro elementi con cui le aziende si dovranno confrontare nel 2024 per individuare nuove strategie HR, secondo l’Osservatorio del Politecnico.

«Se in passato il lavoro era il centro delle aspirazioni e dei progetti di autorealizzazione per crescere anche di ruolo e status sociale – ha ribadito Corso -, ora la fragilità del futuro sembra spingere le persone soprattutto a stare bene qui ed ora. Nel lavoro si cerca un benessere economico e mentale, in cui la flessibilità nei tempi e luoghi è fondamentale. È necessario quindi ripartire dalle basi per costruire un nuovo approccio al lavoro orientato alla felicità, che preveda insieme giusto riconoscimento, flessibilità, work-life balance, inclusione, valorizzazione, employability».

Talent shortage: l’Osservatorio HR 2024 dimostra che attrarre e trattenere talenti è sempre più difficile

Come ha sottolineato Corso, il talent shortage è oggettivamente una delle sfide principali per chi in Italia si occupa di risorse umane. Trovare talenti con le giuste caratteristiche è sempre più complesso: un’impresa su due dovrebbe aumentare l’organico per crescere nel 2024, ma quasi 9 organizzazioni su 10 non riescono ad assumere. In particolare il 57% fatica a individuare candidati con competenze tecniche adeguate e il 38% ha difficoltà con le competenze soft.

Ma non è semplicemente un problema di skill mismatch, «quello a cui si assiste oggi è un fenomeno nuovo, i rifiuti delle offerte di lavoro, a cui le imprese non sono abituate. Accade nel 54% dei casi. E poi si assiste anche a un altro trend che preoccupa le Direzioni HR: i candidati assunti decidono di cambiare lavoro dopo pochi mesi dall’assunzione (17%)».

Bisogna fare i conti con la GenZ

E a preoccupare è soprattutto la generazione degli under 27, che mostra di avere valori sul lavoro diversi da chi li ha preceduti: sono molto attenti a benessere fisico e mentale e agli aspetti legati alla sostenibilità, meno alla retribuzione e ai benefit economici, e il 65% di loro ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi o ha espresso la volontà di farlo nei prossimi 6. «Non solo – ribadisce Corso – i giovani prediligono le aziende che danno loro stimoli e opportunità di crescita, non tanto e non solo nell’accezione tradizionale, come ad esempio la carriera, ma anche e sopratutto in termini di possibilità di testare, provare diverse occupazioni e sviluppare la propria employability. La Generazione Z ha un’inquietudine che per le aziende deve diventare un traino e un’apertura all’innovazione e alla sperimentazione, si tratta di un potentissimo driver di cambiamento dell’organizzazione».

Cosa fanno le aziende per contrastare il talent shortage

Per attrarre più candidati il 51% delle aziende sta aumentando i canali di ricerca, il 45% richiede il supporto di società specializzate per la ricerca di personale e il 40% offre salari più alti.

«È interessante vedere la differenza in termini di approccio di quelle aziende, solo il 27%, che hanno una strategia formalizzata di employer branding – ha detto Corso. Ecco, in termini di risposte queste si differenziano. In questo caso ci si serve meno della revisione della proposta economica e si fa meno ricorso alle società di ricerca del personale e si punta sui temi di flessibilità e impatto sociale, sulla comunicazione».

Le grandi dimissioni preoccupano ancora

Gli italiani continuano a cambiare lavoro: il 42% l’ha fatto recentemente o ha intenzione di farlo a breve e nel 2024 per la prima volta il motivo principale è la ricerca di “benessere fisico e mentale” (36%), ma crescono anche la ricerca di opportunità di carriera e di occupabilità nel medio-lungo termine.

La “Great Resignation” non si ferma quindi, e neanche il “Great Regreat”: il 56% di chi ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi si è già pentito (37% in più rispetto al 2023). Una delle principali fonti di malessere resta l’incapacità di gestire vita lavorativa e vita privata: in un anno, raddoppiano i Job Creeper (13% vs. 6%), quelli che non riescono a smettere di lavorare e lo fanno in momenti che dovrebbero dedicare alla propria vita privata, mentre è stabile il numero dei Quiet Quitter (12%), i lavoratori che fanno il minimo indispensabile senza essere coinvolti emotivamente nelle attività che svolgono.

Come ha ribadito il Direttore Scientifico dell’Osservatorio HR 2024, «l’entità di questa sfida è sì legata al fatto che l’11% delle persone ha cambiato volontariamente lavoro nell’ultimo anno, ma ancora di più a preoccupare il numero consistente dei cosiddetti intenders, cioè coloro che stanno cercando attivamente di cambiare lavoro, ma magari a causa delle rigidità del mercato, non riescono a farlo. Fenomeno che in realtà è ancora più grave perché queste persone rischiano di spegnersi e di essere molto difficili da motivare».

Gli italiani alla ricerca della felicità sul luogo di lavoro

L’Osservatorio HR 2024 è ripartito dal modello della piramide della felicità presentato lo scorso anno.

Dalla ricerca in collaborazione con Doxa, che ha coinvolto 1500 rispondenti, emerge che:

  • solo il 16% del campione percepisce oggi un giusto riconoscimento dalla sua organizzazione, anche quando si raggiungono gli propri obiettivi o si possiedono le competenze chiave che servono. E che, in tale senso, il fenomeno riguarda principalmente le donne;
  • solo il 9% si sente bene al lavoro contemporaneamente sulle tre dimensioni del benessere relazionale, psicologico e fisico. In particolare sulle ultime due le aziende faticano ad attivare iniziative a supporto. A sentire il peso del malessere, in questo caso, sono i Millennials e la Generazione X;
  • il 18% pensa di avere un buon equilibrio tra lavoro e vita privata. Quello che si riscontra è la mancanza di servizi a supporto di questo equilibrio, e ne risentono soprattutto le donne e la GenZ, che vorrebbe poter gestire meglio il tempo libero “da dedicare alla vita”;
  • solo il 16% si sente pienamente incluso e valorizzato. Quello che manca è la possibilità di avere le stesse opportunità di carriere, e anche una scarsa valorizzazione dei talenti e dei punti di forza. È interessante il fatto che a sentirsi più discriminati siano gli under 30 e gli over 50;
  • il 28% del campione percepisce di essere employable, quindi impiegabile anche in futuro. A essere carenti sono le opportunità di sviluppo messe a disposizione dall’organizzazione.

Arrivati al vertice della piramide, solo il 5% dei lavoratori è felice, in quanto è soddisfatto del suo lavoro, legato affettivamente all’organizzazione e si sente ingaggiato.

Per crescere questa percentuale, che potrebbe balzare al 24%, è necessario che le organizzazioni agiscano sul purpose delle persone, dando al lavoro un nuovo significato, ad esempio coinvolgendole in iniziative ad impatto sociale e ambientale. A oggi il 65% delle aziende prevede momenti di sensibilizzazione e di formazione su queste tematiche, e il 43% coinvolge direttamente i collaboratori in progetti con il terzo settore o con la comunità locale. È comunque importante riflettere su un elemento: oltre ad avere naturalmente un impatto sulla felicità delle persone, lavorare su questa dimensione ha ricadute importanti anche sull’organizzazione, in termini di capacità di ingaggiare le risorse, tenere aggiornate le competenze interne, fidelizzare i dipendenti e attrarre nuovi candidati per le posizioni aperte.

AI e lavoro: l’Osservatorio HR 2024 fa il punto

Nell’ultimo periodo si è parlato molto di Intelligenza Artificiale, soprattutto con l’uso diffuso di ChatGPT. Questo ha fatto nascere molti interrogativi sull’utilizzo dell’AI in ambito HR e sull’impatto che può avere: «Le precedenti applicazioni dell’Artificial Intelligence hanno avuto ricadute sulle occupazioni a basso valore e sulle attività routinarie più facilmente automatizzabili – ha sottolineato Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice -. L’AI Generativa invece influenza quei ruoli che fino ad oggi erano stati poco esposti alla trasformazione digitale, quelli creativi e di concetto. E poi il suo utilizzo è davvero a portata di tutti, non è necessario conoscere dei linguaggi di programmazione, ma per interagire è sufficiente utilizzare il linguaggio naturale. Questo però non vuol dire che non è necessario comunque sviluppare delle competenze e delle abilità per sfruttare al meglio questi strumenti. Le organizzazioni iniziano ad attrezzarsi, e non è un caso che gli annunci di ricerca di profili al cui interno c’è la parola cioè GPT siano raddoppiati». Tra le principali barriere alla sua adozione spicca infatti la mancanza di competenze e di predisposizione delle persone.

Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio HR 2024, le aziende stanno quindi iniziando a investire nei talenti in ambito Intelligenza Artificiale: il 54% cerca profili in questo campo (+25% rispetto al 2023) e il 62% ha iniziato a sperimentare soluzioni di AI Generativa a supporto delle attività lavorative, anche se solo il 12% con una guida diretta da parte dell’organizzazione e linee guida sull’utilizzo.

Per le Direzioni HR, il principale impatto di soluzioni AI nei prossimi 5 anni sarà l’evoluzione dei ruoli e delle competenze, più che la riduzione dell’organico. Secondo il 62% l’ascesa dell’AI Generativa porterà a un arricchimento di competenze e per il 34% una riqualificazione di ruoli in declino. Per programmare dei percorsi di reskilling e upskilling efficaci è necessario capire quello che è il reale impatto di questi strumenti sulle attività lavorative, sui ruoli e sulle competenze: il 17% delle organizzazioni sta già facendo un lavoro di questo tipo e nel breve-medio periodo il 62% delle aziende si aspetta un arricchimento per la maggior parte dei ruoli di nuove competenze e il 34% ipotizza una riqualificazione delle persone che ricoprono ruoli in declino.

«Rispetto alla GenAI, il nodo della formazione è centrale: il 65% delle persone vorrebbe seguire un corso di formazione e le competenze che si dovranno acquisire non saranno tanto tecniche quanto trasversali: servirà pensiero critico, AI interaction, etica digitale e decision making consapevole», ha ricordato Mauri.

«La verità è che non c’è solo paura e scetticismo rispetto a questa tecnologia. C’è chi vede in questi strumenti un alleato per fare meglio il proprio lavoro, un’opportunità per nuovi percorsi di carriera e per sviluppare nuove competenze oppure anche, perché no, per lavorare meno a parità di stipendio, quindi un supporto per gestire meglio i carichi di lavoro e guadagnare in benessere. E poi può aiutare a superare alcune criticità, come il talent shortage, automatizzando ad esempio alcune attività per cui mancano le persone e riducendo la dipendenza da competenze specialistiche», ha concluso Mauri.

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