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Welfare aziendale: cos’è e perché fa felici dipendenti e organizzazioni



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Cresce in Italia la diffusione di piani di benefit adottati dalle imprese, sempre più ricchi di beni e servizi messi a disposizione dei lavoratori per accrescere il potere di spesa, la salute e il benessere dell’intero nucleo familiare. Ecco come funziona, perché conviene e quali sono le norme italiane che lo agevolano

Aggiornato il 8 lug 2024



Welfare aziendale

Per welfare aziendale si intende l’insieme di iniziative, beni e servizi messi a disposizione dall’impresa come sostegno al reddito per accrescere il potere di spesa, la salute e il benessere del lavoratore con contratto a tempo indeterminato. La definizione di welfare, termine anglicizzato, è infatti quella di “benessere” e anche di “sussidi” e “assistenza sociale” e può essere di carattere pubblico e privato.

In cosa consiste il welfare aziendale

I piani di welfare aziendale possono essere strutturati “on top” alla retribuzione fissa e variabile, cioè a prescindere da queste, come elargizione liberale da parte della proprietà o anche come frutto di accordo sindacale, con agevolazioni fiscali entro certi tetti di spesa per l’azienda. Oppure i piani welfare aziendali possono essere associati alla parte variabile delle retribuzioni, nel qual caso vanno regolati da accordi sindacali aziendali o di categoria, soluzione resa possibile dalle leggi di stabilità 2016-2017. In questo modo il welfare aziendale coniuga la responsabilità sociale d’impresa con i piani di incentivazione della forza lavoro, associando direttamente i benefit al tema della compensation.

Ma in entrambi i casi, sia come investimento on top da parte dell’azienda, sia come conversione parziale o integrale del premio di risultato, entro certi limiti di spesa si tratta di servizi detassati per i lavoratori dipendenti, perché rientrano tra quei beni e servizi che non concorrono a formare reddito imponibile (e quindi neppure da indicare in dichiarazione dei redditi se rimborsati nello stesso anno, né soggetti a detrazione Irpef), in quanto volti a soddisfare esigenze e interessi meritevoli di tutela, come il miglioramento delle loro condizioni di vita e dei loro familiari (art. 51, secondo comma del Testo unico delle imposte sui redditi – Tiur). In pratica, non costituendo reddito, la loro corresponsione è esente da tassazione fiscale e contributiva ed è deducibile per l’azienda (entro certi limiti).

Il welfare aziendale in un mondo del lavoro che è ‘un mare in tempesta’

In uno scenario delicato, caratterizzato da Talent Shortage, grandi dimissioni e un generale malessere diffuso tra i lavoratori, le aziende sono chiamate a un nuovo senso di responsabilità e a fare del welfare una strategia a tutto campo.

Il welfare aziendale è per definizione un tentativo di risposta ai bisogni dei lavoratori e può e deve avere un ruolo anche in questo difficile periodo, sostiene Aiwa, l’Associazione italiana welfare aziendale. Non si tratta soltanto di continuare ad erogare beni e servizi ai dipendenti che si recano sul posto di lavoro; la sfida più grande è la condizione dei tanti Smartworker che da un giorno con l’altro, spesso senza che l’organizzazione aziendale fosse pronta, si sono ritrovati a dover garantire il proprio servizio in una condizione tutt’altro che ovvia in termini di stress e di conciliazione tra vita professionale e vita privata.

Per queste persone il welfare aziendale può diventare un aiuto inaspettato da parte del datore di lavoro. Non è lo stesso welfare aziendale della situazione ordinaria, ma una sorta di welfare “di crisi”. Maggiore spazio può essere dato alle soluzioni di assistenza sanitaria (diverse imprese hanno previsto assicurazioni specifiche per l’eventualità di contagio), alle misure per la cura dei figli, alle somme per il rimborso delle spese sostenute per la cura degli anziani e delle persone non autosufficienti, ai buoni multiservizi utili all’acquisto dei beni di prima necessità e all’assistenza psicologica gratuita.

Un altro complemento importante ai pacchetti di welfare aziendale può essere l’accesso diretto e rapido a una soluzione di telemedicina, telemonitoraggio e teleconsulto in ufficio e in qualunque altro posto di lavoro. Le soluzioni di telemedicina offrono un accesso semplice e rapido a servizi medici senza doversi recare fisicamente a effettuare una visita, mettendo a disposizione dei pazienti strumenti per eseguire autonomamente alcuni esami e per inviare i dati digitali agli specialisti, che possono poi fornire indicazioni su eventuali azioni successive.

Welfare Index PMI

Ma non solo le grandi aziende, anche le piccole e medie imprese puntano a raggiungere obiettivi di welfare; anzi, stando all’ultimo Welfare Index PMI, promosso da Generali, le PMI italiane si caratterizzano per la loro celerità nell’implementare piani di wellness e wellbeing, destinando per ogni dipendente somme molto più alte rispetto alle grandi aziende e avendo un impatto sociale rilevante sulle comunità locali. Lo studio, non a caso, evidenzia un incremento costante da parte delle aziende con meno di 50 milioni di fatturato e meno di 250 dipendenti nell’offerta di strumenti di welfare per i dipendenti. Le microimprese, con meno di 2 milioni di euro di fatturato e meno di 10 dipendenti, hanno addirittura raddoppiato le loro iniziative di welfare.

Inoltre, il rapporto sottolinea che oltre il 68% delle PMI italiane superano il livello base di welfare, con un notevole aumento delle aziende con livelli “molto alto” e “alto” dal 10,3% del 2016 al 24,7% del 2022. Anche le microimprese hanno raddoppiato le loro iniziative di welfare, grazie alla semplificazione delle normative e alle risorse pubbliche destinate alla protezione sociale, che hanno incoraggiato anche le realtà più piccole a sostenere le famiglie.

Il welfare aziendale non solo migliora il benessere dei dipendenti, ma è anche un forte propulsore di crescita economica e produttività per le PMI. L’analisi campionaria del Welfare Index PMI di Generali dimostra che le imprese con un welfare più avanzato registrano performance di produttività superiori alla media e una crescita più rapida nei risultati economici e nell’occupazione. Nel 2021, l’utile sul fatturato delle aziende con un livello molto alto di welfare è stato doppio rispetto a quello delle aziende con un livello base: 6,7% contro 3,7%. Anche il Margine Operativo Lordo (MOL) pro capite, indicatore della produttività per addetto, ha mostrato un significativo divario: nelle imprese con un welfare aziendale molto avanzato, l’indice di produttività MOL/fatturato è cresciuto dal 9,4% nel 2019 all’11% nel 2021, mentre tra le imprese con un livello base di welfare l’incremento è stato solo dello 0,2%. Gli indici di redditività seguono una dinamica simile.

Per la prima volta, l’analisi mostra che il welfare aziendale è anche un fattore di resilienza: le PMI con un welfare più evoluto hanno affrontato meglio la pandemia e mostrato un maggiore slancio nella ripresa. Queste imprese hanno un impatto sociale più rilevante sui propri stakeholder, inclusi lavoratori, famiglie, fornitori, clienti e comunità. Contribuiscono inoltre maggiormente alla crescita dell’occupazione di donne e giovani. Le aziende che considerano il welfare come una leva strategica di sviluppo sostenibile sono raddoppiate, passando dal 6,4% del 2016 al 14,1% del 2022. Tra queste, l’87,5% genera un impatto sociale elevato, contro una media generale del 38%. Al contrario, per le PMI agli inizi del loro sviluppo del welfare aziendale, la percentuale di impatto sociale elevato si ferma al 6%.

Come funziona il welfare aziendale e perché conviene

Tra i benefit per i dipendenti possono essere considerati i servizi di “welfare familiare”, come asili nido, colonie estive e spese scolastiche, le prestazioni di “utilità sociale” con finalità educative, ricreative, di assistenza sociale e sanitaria, nonché la previdenza complementare e le casse sanitarie. Uno dei vincoli è che siano erogati a tutti i dipendenti, o a categorie omogenee degli stessi. Ma se pensiamo ai costi e benefici del welfare, la bilancia pende dalla parte dei benefici sia per l’azienda che per il dipendente, che ne traggono un vantaggio reciproco (“win-win”).

Un piano di welfare aziendale prevede infatti servizi che riducono il cuneo fiscale sia per l’azienda che per il dipendente, aumentando al contempo il potere d’acquisto di quest’ultimo e incidendo su fattori come clima aziendale e conciliazione famiglia-lavoro, con benefici misurabili sulla produttività aziendale. In dettaglio, la soglia di esenzione è di 258,23 euro a collaboratore per i “fringe benefits”, cioè accessori, come buoni pasto e rette scolastiche; di 5.164 euro per la previdenza complementare e soglia di esenzione di 3.615 euro per le casse/polizze sanitarie.

Secondo una ricerca realizzata da McKinsey nel 2013, le politiche di welfare porterebbero a -15% di assenze per dipendente all’anno, con un impatto positivo per l’azienda fino a 1.350 euro; 5% in più di ore lavorate corrispondenti a 1.600 euro all’anno e -1,6 mesi di congedo maternità corrispondenti a 1.200 euro. In conclusione, secondo l’analisi di McKinsey il datore di lavoro avrebbe un ritorno economico netto doppio rispetto ai costi sostenuti, soprattutto grazie all’aumento di produttività dei dipendenti che avrebbero un percepito di valore maggiore del 70% rispetto al costo sostenuto dalle imprese, soprattutto per quei servizi meno reperibili sul mercato dai singoli o giudicati troppo costosi (cura anziani, servizi salva-tempo, flessibilità degli orari, congedi parentali extra retribuiti).

Esempi tipici di benefit e soluzioni di welfare aziendale

Come realizzare un piano welfare? Esempi tipici di welfare aziendale sono l’assicurazione sanitaria integrativa (rimborso spese mediche estese anche ai familiari; convenzioni presso studi medici; checkup sullo stato di salute e anche donazione del sangue a scopo preventivo, oltre che benefico) e la previdenza integrativa (fondi pensione).

Via via che, negli anni, il welfare pubblico sanitario e previdenziale ha avuto meno risorse a disposizione e le stesse aziende, con la crisi dal 2008 in poi, hanno congelato gli stipendi e azzerato i bonus, le iniziative liberali in forma di welfare si sono moltiplicate e si è arricchita la scelta di beni e servizi a sostegno del dipendente, personalizzabili in base all’età, allo stile di vita e al tipo di nucleo familiare, con effetti sulla motivazione dei dipendenti, dando forma ai cosiddetti “flexible benefit”.

Una coppia senza figli, per esempio, ha esigenze diverse da una famiglia con prole. In aggiunta, a dare un forte impulso al cosiddetto “secondo welfare” sono stati sia l’accordo Interconfederale tra Confindustria e sindacati nell’aprile 2009, in risposta alla perdita di potere d’acquisto dei lavoratori con l’inserimento del piano welfare nelle condizioni contrattuali, sia lo sviluppo delle tecnologie digitali che hanno portato alla creazione di piattaforme in grado di gestire una grande varietà di servizi. L’accordo tra le parti sociali ha reso il welfare aziendale un vero e proprio strumento di contrattazione sia di primo (CCNL) che di secondo livello (aziendale).

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Il caso Luxottica ha fatto scuola, applicato a circa 8mila dipendenti, tra impiegati e operai nei sette stabilimenti italiani più la sede di Milano, e seguito a ruota da altre grandi aziende. Per le PMI si sono invece sviluppate soluzioni territoriali con contratti di rete, patti per lo sviluppo e bandi regionali, che sollevano la singola azienda dei costi organizzativi per la stipulazione di questi servizi con soggetti terzi e sfruttano le economie di scala.

Le stesse piattaforme si sono rivelate efficaci per soluzioni di welfare condiviso tra aziende, modalità sviluppata anche dalle associazioni di categoria per la conversione dei contributi previsti dal CCNL in servizi e utilizzata dalle piccole aziende che non avrebbero mezzi per introdurre una propria piattaforma web. Inoltre la variante dei “flexible benefit”, a scalare da un portafoglio elettronico in base a un budget di spesa, si è moltiplicata con la Legge di stabilità del 2016 e a Legge di bilancio del 2017, che ha introdotto la possibilità di convertire parte o integralmente il premio di produzione in beni e servizi welfare entro certi limiti (massimo 3.000 euro e per dipendenti sotto gli 80mila euro di reddito).

Le parti sociali si sono infatti rese conto della necessità di trovare forme di remunerazione non monetaria complementari a quelle tradizionali, ossia salari e premi, che aumentassero la capacità di spesa delle persone e che fossero sostenibili anche per le imprese in una fase di grandi sacrifici per tutti. In pratica, la normativa ha esteso al reddito variabile, e non solo “on top” alla retribuzione, la possibilità di integrare e/o sostituire una quota del pacchetto retributivo accessorio, quello in base ai risultati raggiunti, con beni e/o servizi in natura, che normalmente vengono acquistati dal dipendente all’esterno per far fronte a esigenze personali o familiari.
I flexible benefit si definiscono tali, cioè “flessibili”, perché il lavoratore può comporre il suo paniere di beni e servizi, tra quelli offerti dall’azienda, in base al suo budget di spesa, purché rispondano alle condizioni sopraddette di utilità sociale per poter usufruire degli sgravi fiscali e contributivi.

Quali servizi ci sono per i dipendenti? Si va dalla copertura delle spese per prestazioni sanitarie ai servizi di assistenza all’infanzia, dal voucher per la baby-sitter all’asilo aziendale; dall’assistenza ad anziani e non autosufficienti al rimborso spese dei libri scolastici, dei corsi di lingua e del carburante; dai buoni per la spesa a convenzioni con la palestra, la piscina, le terme e sport vari; dalle convenzioni per cinema e viaggi alla shopping card anche per libri e attività culturali come musei e teatri; dai buoni pasto all’abbonamento per i mezzi pubblici e infine, con la fantasia più sfrenata, dal take away dalla mensa aziendale per avere pronta la cena a casa fino al maggiordomo che sbriga tutta una serie di incombenze, dal ritiro della tintoria al lavaggio dell’auto.

In aggiunta, in letteratura anche lo Smart Working rientra tra le forme di welfare aziendale, perché teso a conciliare in modo flessibile i vari momenti della giornata, grazie a una maggiore autonomia spazio-temporale nell’organizzazione ed espletamento dei propri compiti.

I vantaggi per le aziende

Le iniziative di welfare aziendale agiscono sul livello di engagement dei dipendenti, cioè sul loro livello di ingaggio, di motivazione al lavoro e, di conseguenza, sulla loro produttività, perché se sono più soddisfatti sono anche più disponibili a impegnarsi e a produrre secondo i tempi e gli obiettivi dati. I benefici per le aziende sono molteplici: si abbassano anche i livelli di assenteismo, i tempi di rientro dai congedi facoltativi e si riduce il turnover perché l’azienda favorisce la conciliazione dei tempi di cura e tempi di lavoro.

Inoltre, il clima che tende a crearsi in ufficio, positivo e collaborativo, si riflette anche sull’Employer Branding, cioè sull’attrattività dell’impresa come posto di lavoro. Godendo di una buona reputazione grazie ai suoi ambassador interni, questa attira più candidati sia per i suoi pacchetti retributivi, sia per l’attenzione che pone al benessere dei dipendenti e si traduce anche in processi più veloci ed efficaci di ricerca e selezione di personale qualificato. Inoltre, con la conversione dei premi di produttività in servizi di welfare l’impresa viene alleggerita del carico fiscale grazie alla deducibilità dei costi. Infine, la disponibilità oggi di piattaforme digitali, con una gestione da parte di terzi che stipulano gli accordi con i fornitori di servizi, sgrava ulteriormente l’azienda della gestione operativa dei suddetti servizi.

I vantaggi per i dipendenti

I servizi di welfare sono detassati per i dipendenti da un punto di vista fiscale e contributivo, nei limiti dati, sia che siano on top alle retribuzioni, sia che corrispondano alla parte variabile del reddito.

Di conseguenza hanno un valore maggiore rispetto al corrispettivo monetario che verrebbe tassato, aumentando così il potere d’acquisto del lavoratore di circa il 40%. Mille euro in servizi welfare sono mille euro, non 600 euro come in caso di tassazione. In questo modo si evitano al dipendente alcune spese, che dovrebbe comunque sostenere per la sua gestione familiare e di cura e crescita personale e per le quali, con il suo stipendio, avrebbe minore capacità di spesa e che così si rende disponibile per altro.

A loro volta i flexible benefit, offrendo una varietà di convenzioni e servizi studiati sui bisogni diversificati dell’intero ciclo di vita di una persona, danno soddisfazione e fanno sentire considerati e valorizzati come persone, e non come numeri cui fornire servizi indifferenziati. A loro volta, i servizi che favoriscono una migliore conciliazione della vita lavorativa con quella privata e familiare riducono lo stress lavoro correlato, fanno lavorare meglio, aumentano la concentrazione e riducono la fatica, anche nella mobility, cioè nello spostamento da casa all’ufficio e ritorno, perché c’è una pianificazione degli impegni che è resa più sostenibile dagli strumenti di welfare, come i permessi, orari di lavoro flessibili, lo smart working con il lavoro in remoto, la banca ore, il job sharing e tutti gli aiuti offerti per smaltire incombenze personali.

Benefici fiscali e normativa in Italia (2019)

Il piano di welfare aziendale può essere alimentato con contributi di diversa natura, in particolare:

  1. Il contributo welfare stabilito dal contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL) è obbligatorio per l’azienda e con un ammontare definito nel CCNL stesso. I CCNL che prevedono contributi obbligatori sono i metalmeccanici; i metalmeccanici unionmeccanica/confapi; gli orafi, argentieri e gioiellieri; le telecomunicazioni; i pubblici esercizi e il contratto collettivo provinciale industria conciaria. In questo caso, il contributo welfare per il dipendente non costituisce reddito imponibile ai fini fiscali e previdenziali e per l’azienda è un costo deducibile al 100%.
  2. Il contributo welfare unilaterale è un’erogazione a discrezione dell’azienda che ne definisce modalità e importo. Per il dipendente non costituisce reddito imponibile ai fini fiscali e previdenziali. Per l’azienda è al 100% deducibile per importi entro la soglia dei “fringe benefit” (258,23 € all’anno) o quando l’erogazione avvenga come adempimento di un obbligo definito in un regolamento aziendale. In assenza del regolamento aziendale, è ammessa la deducibilità entro il limite del 5/1000 del costo del lavoro indicato in bilancio.
  3. Nella conversione del premio di risultato in beni e servizi di welfare è necessario un accordo sindacale con Rsu/Rsa aziendali, o in loro assenza con i sindacati di categoria, che preveda espressamente la possibilità di convertire il premio su scelta dei lavoratori ed eventuale regolamento attuativo. I vantaggi fiscali sono previsti per i dipendenti con redditi annui inferiori a 80.000 euro e per un importo convertito di massimo 3.000 euro all’anno per dipendente. Come per i contributi welfare CCNL, quando il premio di risultato viene convertito in welfare, per l’azienda è prevista la piena deducibilità e per il dipendente gli importi convertiti non costituiscono reddito imponibile ai fini fiscali e previdenziali. È inoltre ammessa la possibilità di superare le soglie di deducibilità normalmente previste per la previdenza complementare (5.164,57 euro) e l’assistenza sanitaria integrativa (3.615,20 euro). Per i lavoratori con reddito superiore agli 80.000 euro annui gli accordi possono prevedere il riconoscimento del premio sotto forma di welfare, con la conseguente attribuzione dei medesimi benefici fiscali previsti per i dipendenti con redditi inferiori a 80.000 euro annui, solo nel caso in cui non sia prevista come alternativa la sua conversione monetaria.

L’azienda può decidere di finanziare il suo piano di welfare cumulando anche diverse tipologie di contributo. L’erogazione dei contributi viene gestita attraverso strumenti come piattaforme o voucher welfare.
La legge di bilancio 2019 non ha apportato novità significative in termini di sostegno al welfare aziendale, limitandosi alla previsione di interventi tramite il Fondo per le politiche della famiglia, introdotto nel 2006 e gestito dal Ministero per le politiche per la famiglia. Sarà destinato a “finanziare interventi in materia di politiche per la famiglia e misure di sostegno alla famiglia, alla natalità, alla maternità e alla paternità, al fine prioritario del contrasto della crisi demografica, nonché misure di sostegno alla componente anziana dei nuclei familiari”.

Viene poi specificato che una parte delle risorse serviranno a sostenere “iniziative di conciliazione del tempo di vita e di lavoro, nonché di promozione del welfare familiare aziendale, comprese le azioni di cui all’articolo 9 della Legge 8 marzo 2000, n. 53”. La legge a cui si fa riferimento è quella che prevede flessibilità nell’orario di lavoro per chi ha figli, introduce programmi di reinserimento dopo il congedo genitoriale e sancisce altri interventi a sostegno di madri e padri lavoratori.

L’adozione del welfare in Italia: boom di premi di produttività (2016-2019)

Negli ultimi tre anni c’è stato un boom di contratti integrativi che hanno introdotto il premio di produttività, che è passato dai 9mila nel 2016 agli oltre 54mila nel 2019. Di questi, oltre uno su due prevede la conversione in welfare aziendale: il tasso di incidenza delle misure di welfare su contratti che includono il premio di produttività è infatti aumentato dal 46% nel 2018 al 57% nel 2020 (fonte Ministero del Lavoro). In pratica, quasi sei contratti su dieci prevedono misure di welfare aziendale, con la possibilità di convertire il premio di risultato parzialmente o totalmente in beni e servizi welfare.

Oltre alla crescita di interesse da parte delle aziende ai vantaggi e opportunità offerti dal welfare, dall’Osservatorio Easy Welfare Edenred risulta anche un incremento del ricorso da parte dei beneficiari: se nel corso del 2018 uno su quattro dei beneficiari (25%) sceglieva una quota welfare dal premio di produttività, nel corso del 2019 è diventato uno su tre (34,5%). La spesa in istruzione (tasse scolastiche, acquisto libri, iscrizioni asili nido) è la voce più consistente con il 33,8%. Segue l’area ricreativa con il 22,4% (palestra, viaggi, sport); i fringe benefit (carte prepagate per spesa, carburante, shopping e elettrodomestici fino a 258,53 euro annui) con il 18,1%; la previdenza integrativa (12,7%); l’assistenza sanitaria (7,6%); la mobilità (3,7%); l’assistenza familiare (1,2%) e infine mutui e prestiti (0,5%).

La somma media disponibile per i dipendenti sotto forma di credito in welfare aziendale è pari a 860 euro pro capite per il 2019, con un aumento del 10% negli ultimi tre anni. Il settore che garantisce l’importo in welfare più elevato è quello bancario e assicurativo (tra i 1.000 e i 2.000 euro a dipendente), mentre l’industria e la manifattura sono il principale comparto di diffusione, grazie anche alla quota pro capite di 200 euro in welfare prevista dal contratto nazionale di categoria.

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