La parità di genere, il cosiddetto “gender gap”, è un tema sempre più attuale. A tal punto da essere anche contemplata anche nelle misure previste dal PNRR, “il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha predisposto un documento che analizza il contributo degli interventi previsti nel PNRR e presenta una valutazione ex ante sugli impatti che gli interventi stessi possono apportare per ridurre il divario in molti ambiti“. In particolare, le risorse previste dal PNRR per interventi mirati alle donne o che potrebbero avere riflessi positivi, anche indiretti, nella riduzione dei divari attualmente presenti a favore delle donne rappresentano oltre il 20% del totale (circa 38,5 miliardi).
I dati del Global Gender Gap del World Economic Forum 2023, rivelano che negli ultimi 8 anni il tasso di assunzione di donne nei ruoli di leadership è aumentato lentamente, con un tasso di circa l’1% annuo a livello globale. In termini di settori, dal 2016 alla metà del 2022, la rappresentanza femminile nei ruoli dirigenziali è, infatti, cresciuta in diverse industrie. Tuttavia, nel primo trimestre di quest’anno, la percentuale di donne che ricoprono ruoli dirigenziali è scesa al 32%, tornando ai livelli registrati durante la pandemia del 2020. A erodere i timidi passi avanti compiuti in questa direzione è stato il generale rallentamento del mercato del lavoro durante gli ultimi due anni che, ancora una volta, ha colpito maggiormente le donne.

I settori che hanno registrato il calo maggiore di rappresentanza femminile nei ruoli di leadership sono stati i servizi al consumo (-0,58%), i servizi sanitari e di assistenza (-0,42%) e il settore immobiliare (-0,41%).
In Italia, nel 2022, le donne detenevano il 32% delle posizioni aziendali di comando, 2 punti percentuali in più rispetto al 2021. Le donne CEO erano salite al 20% così come quelle con ruoli nel senior management al 30% nel 2022. Tuttavia, il nostro Paese rimane ancora nelle retrovie tra le 30 economie mondiali analizzate. A metterlo nero su bianco il rapporto annuale “Women in Business“ di Grant Thornton. La stessa ricerca nel 2021 aveva rilevato, infatti, che le posizioni di CEO occupate dalle donne erano scese al 18% rispetto al 23% registrato nel 2020, andando sotto la media dell’Eurozona (21%) e delle rilevazioni fatte a livello mondo (26%). Invece, a livello globale, la ricerca ha mostrato che rispetto al 2021 aumentano le donne CFO (oggi al 37%) e COO (al 24%), mentre scendono di 2 punti le donne CEO (24% rispetto al 26% dello scorso anno).
Da qualche anno a questa parte, quindi qualche piccolo passo in avanti è stato compiuto per colmare il gender gap. Nel 2019 erano quasi tre milioni le donne che ricoprivano ruoli di responsabilità nelle imprese italiane, raggiungendo il 26,7% delle posizioni apicali totali: anche allora nell’ultimo anno si era registrata una crescita dell’1% degli incarichi di vertice. In particolare erano aumentati gli amministratori donne: la loro crescita era stata del 3,1%. A rilevarlo l’indagine sull’imprenditoria femminile in Italia, condotta dal centro studi CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della piccola e media impresa), secondo cui “nonostante ostacoli e difficoltà, le imprese al femminile hanno una marcia in più”.
Qualcosa si sta muovendo, dunque, ma il gender gap è ancora troppo ampio.
Che fare? Una buona notizia qualche anno fa era arrivata con la proroga della legge Golfo-Mosca, in vigore dal 2011, che, per contrastare la discriminazione nei confronti delle donne nei consigli di amministrazione delle aziende, obbliga le società quotate a riservare un terzo dei posti nei board di controllo alla rappresentanza femminile. Questa legge è stata estesa a fine 2021 anche alle società controllate dalle Pa, non quotate in mercati regolamentati.
Secondo Mariano Corso del Politecnico di Milano, «la proroga della Legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei CdA era stata una misura necessaria per dare un segnale importante e per evitare pericolosi passi indietro. Ma non basta. Le vere pari opportunità non si costruiscono nei CdA o nei Collegi Sindacali. Sono altre le vere stanze dei bottoni, altre le palestre di sviluppo professionale. Per creare pari opportunità bisogna promuovere un cambiamento di cultura e modelli organizzativi per incoraggiare e promuovere la leadership delle donne e vigilare perché non ci siano discriminazioni e disparità di trattamento fin dai livelli operativi e poi ad ogni livello di crescita manageriale».
Inoltre, il 4 marzo 2021 la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha presentato la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Unione Europea donne e uomini ricevano la stessa retribuzione per uno stesso lavoro. La proposta adesso passerà al vaglio del Parlamento Europeo.
In generale è comunque tempo che le aziende cambino passo, concretamente, rispetto al tema del gender gap. Perché, come sottolinea Boston Consulting Group, la diversity è anche un ‘affare’: le aziende con almeno tre dirigenti donne hanno un aumento mediano del ROE superiore di 11 punti percentuali in cinque anni rispetto a quello delle aziende senza dirigenti donne. E le aziende con almeno il 30% dei dirigenti donne hanno un aumento del 15% della redditività rispetto a quelle senza dirigenti donne. Basta una sola donna in più nella leadership per aumentare il rendimento di una azienda da 8 a 13 punti base.

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L’Italia perde la sua posizione nella classifica del WEF Global Gender Gap Report 2023
Rispetto a quanto riportato dal report Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum, il Global Gender Gap Report 2022, c’era stato un leggero miglioramento nel numero di anni che ci vorranno per raggiungere la piena parità, passati da 136 a 132. Tuttavia, questo risultato positivo non compensa la perdita generazionale che si è verificata tra il 2020 e il 2021: secondo le tendenze precedenti al 2020, il divario di genere era destinato a ridursi entro 100 anni.

Andando più in dettaglio, sebbene nessun Paese abbia ancora raggiunto la piena parità di genere, le prime 10 economie hanno colmato almeno l’80% dei loro divari di genere, con l’Islanda (91,2%) in testa alla classifica globale per il tredicesimo anno consecutivo. Altri Paesi scandinavi come la Norvegia (87,9%, 2°) la Finlandia (86%, 3°),e la Svezia (81,5%, 5°) figurano nella top 5, con altri Paesi europei come la Germania (81,5%) 6° posizione. Anche i Paesi dell’Africa subsahariana, Ruanda (81,1%, 6°) e Namibia (80,2%, 8°), insieme a un Paese dell’America Latina, il Nicaragua (81%, 7°), e a un Paese dell’Asia orientale e del Pacifico, la Nuova Zelanda (85,6%, 4°), si posizionano nella top 10. Per quanto riguarda l’Italia si attesta al 79esimo posto nel 2023, perdendo punti in classifica rispetto al 2022 e 2021 (63esima posizione).

Anche nel 2023, le donne continuano a essere significativamente sottorappresentate nei ruoli STEM a livello globale, rappresentando solo il 29% della forza lavoro STEM, mentre 8 ruoli di leadership su 10 sono occupati da uomini. Tuttavia, i ruoli STEM sono tra quelli in più rapida crescita e più richiesti, e quindi probabilmente più resistenti alle pressioni economiche.
È chiaro che per dare più spazio alle donne in questi settori serve puntare sull’accesso nelle aree tecnico-scientifica. Tuttavia, anche se nel mondo ci sono più laureate in materie STEM, non altrettante entrano poi effettivamente nella forza lavoro STEM.

«Le donne si laureano percentualmente più degli uomini, ma non nelle discipline dell’informatica e dell’ingegneria dove la loro quota scende sotto il 29% – continua Corso -. È uno squilibrio pericoloso che rischia di far aumentare il gender gap nel mondo del lavoro, in quanto proprio l’informatica e l’ingegneria sono alla base di molte delle professionalità del futuro. Una bassa partecipazione di donne allo sviluppo del mondo digitale, inoltre, rischia di rendere quest’ultimo meno aperto e inclusivo, finendo per incorporare nei sistemi software e negli algoritmi che regoleranno le società, stereotipi e pregiudizi tipici di una cultura maschile. Per questo occorre lavorare a due livelli. Innanzitutto contrastare, a partire da famiglia e scuola, condizionamenti sociali e pregiudizi di genere che scoraggiano le ragazze a orientarsi verso lo studio di discipline STEM. Inoltre, bisogna vigilare perché nelle aziende e nelle funzioni del comparto tecnologico, si combattano le discriminazioni di genere che oggi sono molto frequenti e spingono tante donne ad abbandonare le carriere in quegli ambiti».
Cosa si intende per gap salariale
Com’è facile intuire dal nome stesso, per divario salariale – spesso definito anche Gender Pay Gap – si intende la differenza tra la retribuzione di uomini e donne a parità di ruolo e di mansione.
È possibile distinguere due diverse tipologie di divario salariale:
- Il gender pay gap “grezzo”, che si basa sulla differenza media della retribuzione lorda oraria;
- Il gender pay gap “complessivo” che, oltre a tenere in considerazione il salario orario, ingloba anche il numero medio mensile delle ore retribuite e il tasso di occupazione femminile.
I dati Eurostat dimostrano che in media il divario retributivo di genere all’interno dei Paesi dell’Unione Europea è del 13%. Ciò significa che le donne guadagnano in media il 13% in meno all’ora rispetto agli uomini. Esistono però notevoli differenze tra i Paesi Ue: in cima alla classifica il Lussemburgo con un Gender Pay Gap (non corretto) dello 0,7%, in fondo la Lituania con un Gender Pay Gap (non corretto) del 22,3%, tra questi due estremi gli altri 26 Paesi con l’Italia che registra un Gender Pay Gap (non corretto) del 4,2%.
Ma qual è la situazione in Italia?
L’Italia si colloca al 14° posto nell’UE nel Gender Equality Index, con un punteggio di 65 su 100, che è di 3,6 punti inferiore alla media dell’UE. Dal 2010, il punteggio dell’Italia è aumentato di 11,7 punti, facendo salire il nostro Paese in classifica di sette posizioni. Si tratta di uno dei maggiori miglioramenti a lungo termine.
Tuttavia, si nota una mancanza di equilibrio in ambiente domestico: l’81% delle donne si occupa quotidianamente della cucina e/o delle faccende di casa, rispetto al 20% degli uomini. Esiste uno squilibrio anche nell’ambito dell’istruzione e dell’occupazione. Il 17% delle donne in Italia ha conseguito un diploma di istruzione superiore rispetto al 14% degli uomini. Nonostante il maggior numero di donne abbia raggiunto un livello di istruzione più elevato, il 31% delle donne lavora a tempo pieno, circa 20 punti in meno rispetto alle loro controparti maschili.
Cosa fare per colmare il gender gap
Sono diverse le azioni chiave che le organizzazioni posso mettere in campo per colmare il gender gap:
- Agire sulla cultura e promuovere una formazione inclusiva, che abbatta stereotipi e pregiudizi e che spinga anche le donne a farsi strada verso un apprendimento in ambito STEM;
- Adottare leggi che riconoscano la parità salariale; la Commissione Europea, su indicazione del Parlamento e del Consiglio, sta delineando una serie di azioni concrete che i Paesi dell’Unione potranno adottare per diminuire il gap di genere e garantire che donne e uomini ricevano la stessa retribuzione a parità di lavoro svolto;
- Conseguire la parità di genere nei ruoli dirigenziali a politici;
- Favorire un maggiore equilibro tra vita lavorativa e vita privata, aumentando il ricorso a forme di lavoro flessibili, che favoriscano il ruolo di madri;
- Dare accesso agli uomini al congedo di paternità.
Gli obiettivi dell’Italia
L’Italia ha presentato a dicembre 2020 il Piano Operativo per la Strategia Nazionale per le Competenze Digitali. Si tratta di un documento ambizioso, che punta a colmare il gap digitale del nostro Paese entro il 2025.
Il documento è stato elaborato in un’ottica corale, con la regia del Comitato Tecnico Guida di Repubblica Digitale, coordinato dal Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione (MID) tramite il Dipartimento per la trasformazione digitale. Tra gli obiettivi: raggiungere il 70% di popolazione con competenze digitali almeno di base, con un incremento di oltre 13 milioni di cittadini dal 2019 e azzerare il divario di genere; triplicare il numero dei laureati in ICT e quadruplicare quelli di sesso femminile.
Ad agosto è poi andata in scena anche la Conferenza del G20 sull’empowerment femminile e in questa cornice la ministra per le pari opportunità, Elena Bonetti, ha dichiarato: “Abbiamo l’opportunità, e credo anche la responsabilità, di cimentarci in uno sforzo congiunto per la creazione di un’agenda per la parità di genere a livello globale, che veda la convergenza di attori istituzionali pubblici, del settore privato e della società civile su obiettivi misurabili. Le donne posseggono in sé la metà delle risorse umane del pianeta, eppure le energie femminili sono il potenziale ancora inespresso, sono le forze non ancora messe in campo nelle nostre società. È a beneficio di tutti mettere le donne nelle condizioni di diventare protagoniste alla pari”.
Il documento conclusivo dell’incontro ha poi sottolineato il fatto che è fondamentale per il paesi del G20 riconoscere e contrastare le barriere che minano il pieno empowerment femminile e alimentano la persistenza di stereotipi che ostacolano l’affermazione e l’autonomia delle donne nelle nostre società.
A fine 2021 è stata approvata la legge Gribaudo, che punta a favorire la parità retributiva tra i sessi e sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. In particolare, la legge prevede, dal primo gennaio 2022, la redazione del rapporto di parità per le aziende pubbliche e private con più di 50 dipendenti. La certificazione avverrà sulla base di una serie di parametri che, oltre alla parità salariale a parità di mansioni, riguardano le opportunità di carriera, le policy in essere sulla promozione della parità di genere e la tutela della maternità. Questa certificazione, che darà luogo a benefici contributivi, sgravi fiscali fino a 50 mila euro e un punteggio che premia nell’assegnazione di fondi e nella partecipazione alle gare d’appalto. Il testo della legge poi punta il dito contro gli atti discriminatori, ovvero contro ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, o in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera. È previsto, infine, che il Ministero del Lavoro pubblichi in una sezione specifica l’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto.
Tre modi per valorizzare il talento delle donne in azienda
Sono ancora molti gli ostacoli che si frappongono tra le donne e il giusto riconoscimento del loro talento, dai vecchi retaggi culturali che influenzano il modo in cui le donne vengono viste alla poca elasticità all’interno delle aziende e alle scarse politiche di welfare mirate a conciliare vita lavorativa e esigenze familiari, ecco dunque tre modi per valorizzare il talento femminile e contrastare il gender gap all’interno delle aziende.
Sensibilizzazione sugli stereotipi di genere. Acquisire consapevolezza dei propri pregiudizi e stereotipi (anche inconsci) e assicurarsi che questi non influenzino le decisioni sulle persone (chi promuovere? chi assumere? a chi assegnare quel progetto strategico?) è il primo step per combattere il gender gap all’interno delle aziende.
Cultura del coaching. Le aziende devono introdurre programmi che promuovano lo sviluppo e l’affermazione del talento femminile. Un’offerta di percorsi di formazione, e di percorsi di coaching, è utile per riuscire in quest’obiettivo. In particolare, con il coaching, è la persona a orientare il suo sviluppo. Costruire la propria carriera, effettuare una valutazione e agire di conseguenza diventano così responsabilità individuali. Allo stesso tempo il coaching può sviluppare una managerialità diffusa in tutta l’organizzazione in grado di fornire spazio al talento unico della persona, premiando i leader che accolgono e valorizzano la genitorialità (non solo la maternità), sviluppano il talento e le competenze invece che focalizzarsi su stereotipi di genere.
Revisione dei processi. Ridisegnare i processi (ad esempio, la selezione del personale, i percorsi di carriera, il sistema di performance), le strutture, i sistemi che supportano la crescita della persona e la generazione di un contesto a misura di ogni singola persona, diventa fondamentale per supportare la creazione di un contesto inclusivo, che valorizzi l’unicità del singolo, nella ricchezza della sua diversità.
Donne e lavoro in Italia, avanti i profili intellettuali e specializzati
Sebbene la ripresa occupazionale al femminile ancora stenti a decollare e il numero delle lavoratrici sia passato dai 9,7 milioni del 2019 ai 9,5 milioni del 2021, le donne hanno rappresentato il 66,3% delle nuove attivazioni tra i profili intellettuali e specializzati, cresciuti del 23% rispetto al 2019. A rivelarlo è il dossier Donne e lavoro: ancora lontana la ripresa occupazionale realizzato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. Alta formazione e competenza sono dunque le chiavi per le donne per avere più chance lavorative: rispetto ai primi nove mesi del 2019, crescono nello stesso periodo del 2021 le assunzioni delle laureate che hanno rappresentato il 18,4% delle neoassunte e su 100 laureati che hanno sottoscritto un nuovo contratto, 65 sono donne. Inoltre, nel 2021, evidenzia lo studio, il mercato del lavoro ha guardato con maggiore attenzione ai profili femminili più qualificati anche in settori a tradizionale vocazione maschile (settore ingegneristico, scienze matematiche, informatica), ciò si è tradotto con quasi un’assunzione su quattro (24%) avvenuta tra professioni intellettuali, ad alta specializzazione anche tra quelle tecniche. Nel dettaglio, a registrare la maggiore crescita (+40,2%) sono donne ingegnere e architette, seguite dalle specialiste della salute (+33,6%), della formazione e della ricerca (+26,9%) e specialiste in scienze matematiche, informatiche e chimiche (+19,5%). Riguardo alla tipologia di contratti si rileva infine un maggior utilizzo di contratti temporanei: solo il 21,3% delle donne è assunta a tempo indeterminato, mentre la maggioranza (64%) ha avuto un contratto a termine; così come un maggior utilizzo di contratti part time rispetto alle nuove attivazioni di contratti che coinvolgono il genere maschile: solo una donna su due (49,2%) nei primi nove mesi del 2021 ha firmato un contratto a tempo pieno, mentre tra gli uomini la percentuale è del 68,7%.
Gender gap, le donne nel settore tecnologico
Il problema del gender gap affligge anche il mondo delle imprese tecnologiche, come sottolinea il rapporto “The Network Effect: How Women Beat the Odds to Get to the Top in Tech” appena pubblicato da Boston Consulting Group e Women’s Forum. L’indagine, realizzata su oltre 1.500 donne e uomini che ricoprono ruoli apicali nel settore tecnologico o nelle divisioni tech in Francia, Germania, Italia e Regno Unito, mostra come le donne fatichino di più per ottenere lo stesso riconoscimento degli uomini anche in questo settore che, per definizione, dovrebbe essere improntato ad apertura e innovazione.
Secondo il report, il 47% delle donne manager è alla ricerca di una promozione nei prossimi tre anni, percentuale leggermente superiore a quella dei colleghi uomini (42%) coi medesimi obiettivi. Ma questa inclinazione alla carriera non si traduce in un percorso professionale in crescita perché le donne tendono a cambiare datore di lavoro meno spesso degli uomini. In Europa, infatti, solo il 17% delle donne manager ha cambiato più di cinque lavori nel corso della sua vita professionale (a fronte di una percentuale di uomini che si attesta al 22%); le donne, inoltre, registrano risultati più bassi dei colleghi anche nel cluster di manager che hanno collezionato tra tre e cinque significative esperienze professionali: 35% per le donne contro una percentuale che sale al 43% per i manager.
“Il mondo della tecnologia offre ai talenti femminili un enorme potenziale di crescita, dato dalla continua ricerca da parte dei tech player di nuove risorse e competenze. Tuttavia, se le donne continueranno a essere sottorappresentate nelle aziende di settore e nelle divisioni tech aziendali, nei prossimi anni il mismatch tra domanda e offerta continuerà ad essere elevato”, ha dichiarato Elena Benussi, Principal di Boston Consulting Group. “Un maggior numero di donne nei leadership team aiuterà le aziende a costruire vantaggio competitivo di lungo periodo. Un obiettivo importante, in tal senso, sarà quello di non limitare le iniziative di empowerment femminile ad un solo settore, ma tradurle in azioni concrete in diversi settori e a livello internazionale, per avvicinare le donne di tutte le età al mondo STEM”.
È proprio l’ambito STEM uno di quelli su cui lavorare per contrastare il gender gap. Come sottolineato nel documento del G20 si registra un gap digitale di genere, sia in termini di accesso alle piattaforme digitali che di sviluppo di nuove competenze, anche a causa della scarsa partecipazione delle donne nelle discipline STEM. Si tratta di un lavoro che però deve essere ben congegnato perché ha radici sin dai primi anni del percorso di istruzione: “L’esigenza di ridurre le barriere per l’accesso delle donne e delle ragazze nelle imprese dei settori STEM è un percorso che parte fin dalle scuole primarie e secondarie promuovendo l’istruzione in queste discipline”, recita infatti il documento.
Le Coding Girls e la rinascita post-pandemica
Tra i progetti in corso è attivo da anni Coding Girls, promosso dalla Fondazione Mondo Digitale, una partnership pubblico-privata. A ottobre 2020 è stata lanciata la settima edizione del programma con un evento live su Facebook, animato dalle testimonianze di donne protagoniste con diversi ruoli sociali e professionali. Il programma mira a incrementare le competenze digitali e trasversali di 15.000 ragazze della Generazione Z e potenziare le opportunità occupazionali. Il progetto si fonda su un’alleanza collaborativa tra istituzioni e grandi aziende, che coinvolge enti come l’Ambasciata Americana a Roma, l’Ambasciata del Regno dei Paesi Bassi, la Compagnia di San Paolo, Microsoft, Eni e una rete di 32 partner accademici.
Già nel primo anno l’analisi condotta su un campione ha documentato nei partecipanti un miglioramento auto percepito nelle competenze informatiche, un’aumentata consapevolezza delle proprie potenzialità nell’ambito della programmazione e una maggiore propensione a prendere in considerazione una futura carriera universitaria e lavorativa nell’ambito STEM. Sono dati incoraggianti che confermano il ruolo strategico che le Coding Girls vogliono giocare anche per la rinascita post-pandemica.